mercredi, 02 décembre 2009
Trois nouveaux dossiers sur le site de la revue "Vouloir"
Sur http://vouloir.hautetfort.com/
Trois nouveaux dossiers !
Dossier “Spengler”
Dossier “Révolution conservatrice”
Dossier “Décisionnisme”
Dossier “Spengler”
Robert STEUCKERS:
Les matrices préhistoriques des civilisations antiques dans l’oeuvre posthume de Spengler: Atlantis, Kash et Touran
Robert STEUCKERS:
Le rapport Evola/Spengler
Oswald SPENGLER:
Le regard historique
Patrice BOLLON:
Oswald Spengler: le “Copernic de l’histoire”
William DEBBINS:
Le déclin de l’Occident
Gennaro MALGIERI:
Les années décisives
Mireille MARC-LIPIANSKY:
Crise ou déclin de l’Occident
Julius EVOLA:
L’Europe ou la conjuration du déclin?
Dossier “Révolution conservatrice”
Robert STEUCKERS:
“La Révolution Conservatrice”, thèse d’Armin Mohler
Robert STEUCKERS:
Révolution conservatrice, forme catholique et “ordo aeternus” romain
Dossier “Décisionnisme”
Holger von DOBENECK:
Panajotis Kondylis: Pouvoir et décision
Hans B. von SOTHEN:
Hommage à Panajotis Kondylis (1943-1998)
En annexe:
P. CHRISTIAS:
Ennemi et décision – Hommage à Panajotis Kondylis
Julien FREUND:
Que veut dire prendre une décision?
En annexe:
S. de la TOUANNE:
Julien Freund, penseur “machiavélien” de la politique
13:42 Publié dans Synergies européennes | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : synergies européennes, nouvelle droite, revue, révolution conservatrice, décisionnisme, oswald spengler | |
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samedi, 21 novembre 2009
La resurrezione europea
La resurrezione europea
Quando, nei primi anni Trenta, Ernst Jünger vedeva la crisi della borghesia superata dall’avvento di una nuova civiltà, guidata dall’Arbeiter, era decisamente ottimista. Oggi siamo costretti a registrare che il borghesismo è la classe universale che organizza in prima persona il processo di sgretolamento dell’Europa. Quando invece vaticinò «la fine di contesti millenari», volendo dire che era giunta la fine della tradizione europea, vide giusto. Solo che, in luogo del nuovo dominatore metallico dei tempi di rivolgimento, abbiamo più modestamente il protagonismo di un materiale umano di infimissima specie, un “tipo” antropologicamente di lega povera. Le note “caste” oggi al potere rappresentano il contrario di quella razza della nuova “età del ferro” preconizzata dall’intellettuale tedesco, essendo il frutto dell’inopinata affermazione di un’epoca plastificata. Gestita da elementi eticamente e culturalmente inferiori e in base a ideali non eroici, ma da termite.
E dire, però, che quando Jünger faceva le sue ipotesi tutto un mondo ribolliva per davvero di volontà di rovesciamento degli idoli borghesi. La stagione jüngeriana, tuttavia, se misurata in tempi spengleriani, durò un attimo. Il 1932 – anno in cui fu scritto L’operaio – è passato da un pezzo, morti e sepolti sono i tentativi storici di rianimare l’Europa con cure radicali attinte da quello stesso bacino eroicizzante, e tutto ormai riposa sulla quiete di un dominio mondiale di energie corrosive ben paludate da ideali positivi. Lo stesso Jünger, col passare dei decenni, abbandonò le sue immagini faustiane e i suoi affondo nichilistici e si mise ad argomentare in termini di “fine della storia”, di difesa ecologica della Terra, acconciando il suo genio letterario a belle riproduzioni fantasy del romanzo metastorico. Disse di non comprendere i catastrofismi che erano stati di Spengler. Però scrisse che si aspettava una prossima epoca “dei Titani”, «molto propizia alla tecnica ma sfavorevole allo spirito e alla cultura». Titani magari no, ma questo pare proprio il mondo in cui viviamo, in cui il tecnocrate, il politicante e l’uomo-massa di annunci come quelli di Jünger e di Spengler non sanno che farsene.
Ma è a personaggi come i due dioscuri tedeschi che l’Europa deve il fatto di avere ancora un’anima. Sfaldata e minacciata da vicino, ma viva. Non è possibile immaginare una ripresa europea sul ciglio dell’abisso, se non tornando a imbracciare quell’ideologia – poiché proprio di idee armate si trattava – che accomunò Jünger e Spengler come in un sogno europeo di rinascita a tutti i costi. Persino dietro al “tramonto” preconizzato da Spengler, difatti, c’era una promessa di nuovo inizio. E ovunque in Jünger si coglie la volontà di indicare la forma che si imporrà, una volta gestito e fatto placare il caos nichilista.
Dinanzi alla crisi provocata – oggi come allora – da uno scomposto e distruttivo procedere della modernità, l’anelito dell’uomo in ordine con le leggi della vita non può che essere verso «l’esigenza di una vita nuovamente ordinata e strutturata all’interno di una dimensione di compattezza e stabilità». Ha scritto queste parole Domenico Conte, autore di Albe e tramonti d’Europa. Ernst Jünger e Oswald Spengler, appena pubblicato dalle Edizioni di Storia e Letteratura di Roma.
È una frase chiave. Solo apparentemente innocua. Essa infatti mostra come il pensiero del realismo eroico, della mobilitazione totale e del cesarismo militante non fosse espressione anch’esso dell’epoca del nichilismo e dell’aggressione delle masse, ma, al contrario, intendesse utilizzare gli strumenti della modernità per abbatterla e costruire in sua vece un nuovo ordine gerarchico. «Questo mondo della mobilitazione e del movimento non è che un interludio», scrive Conte, e con questo ci fa capire che la fase della lotta è necessaria non in sé, ma per raggiungere ciò che egli definisce la «utopia della stabilità». Insomma: la Rivoluzione Conservatrice – e con loro i regimi nazionalpopolari che bene o male ne misero in pratica i presupposti – è una macchina moderna, d’accordo, ma antimodernista. Oltrepassati i confini della storia e della politica, Jünger e Spengler, ognuno per suo conto, ma con idee sovente intrecciantesi, guardarono al di là, immaginando forme ulteriori, stili post-moderni, accadimenti di primordiale potenza rifondatrice. Osservato fino in fondo l’incubo della tecnica e della società moderne, questi due artigiani dell’idea europea di dominio non hanno fatto filosofia reazionaria, non hanno espresso conservatorismi inetti, ma hanno dato strumenti di rivolta: «con l’impazienza e il radicalismo – soggiunge Conte – di chi non credeva più nella storia o vi credeva solo nel senso del vedervi l’imperare e l’agitarsi di più alte potenze, votarsi alle quali parve cosa necessaria e bella».
In effetti, se Jünger fu il collaboratore dei fogli di punta del nazionalismo politico post-bellico e vicino agli ambienti dell’oltranzismo nazionalrivoluzionario, Spengler non gli fu da meno: in rapporti con personaggi come Franz Seldte, futuro ministro nazionalsocialista, era ammiratore del mondo dei Männerbünde, le milizie armate al seguito di un capo tipiche dell’epoca, dagli squadristi italiani alle SA e allo Stahlhelm, nelle quali vedeva l’affermarsi di un prosssimo cesarismo carismatico. Contestualmente, Jünger osservò ne L’operaio che «la massa comincia a secernere dal proprio corpo organi di autodifesa». Questo considerare le cose dal punto di vista dell’organico, del vitale, dell’ancestrale biologico è forse la dimensione che meglio accomuna Jünger e Spengler e che meglio ne spiega il terribile, seducente, incantatorio talento da affrescatori. Entrambi analisti dell’uomo e della società, entrambi evocatori di scenari cosmologici, di rivolgimenti apocalittici, di ipotesi di riaffermazione di “tipi” elementari e originari, di razze mutanti, di arcaismi giacenti nell’inconscio e riattivati dall’uso della tecnica e dalla volontà impersonale, il tutto da indirizzare – con forte senso politico – contro l’affastellamento informe del Moderno. Profetizzarono uomini nuovi, secondo «cambiamenti fisiognomici intercorrenti nel passaggio dal mondo borghese dell’individuo al mondo tipico dell’Operaio». L’uno e l’altro giudicarono – sbagliando profezia, ma non importa – che presto al borghese, «sfornito di qualsiasi rapporto con forze elementari» sarebbero succeduti esemplari. Quasi campionature di un’inedita stirpe lavorata dai fatti, dal carattere, da un destino epocale.
Sono inquadrature formidabili, bisogna ammetterlo. Quanto di meglio potrebbe chiedersi, per ridare oggi anima e vita a una qualche minoranza in grado di riarmare lo spirito e di intraprendere la lotta contro il mondo moderno, se solo da qualche parte ne esistesse una. Uno dei meriti dello scritto di Conte è quello di presentarci la riflessione tedesca del Novecento rappresentata da Jünger e da Spengler come in fondo un unico strumentario di lotta filosofica, metafisica e politica, bene in grado di raddrizzare il piano inclinato su cui corre la modernità. E si tratta di strumenti da estrarre dai più reconditi giacimenti della natura occulta, veri archetipi in riposo che attendono soltanto di essere risvegliati: l’energia formatrice, ad esempio, la Gestaltungskraft, che a giusto titolo Conte indica come termine essenziale dell’Arbeiter, e che è la stessa forza che, ne L’uomo e la tecnica, Spengler vede agire per catastrofi immediate, risolutive: le mutazioni che aprono vie impensate ai progetti della storia.
Conte batte sul tasto delle naturali differenziazioni tra i due pensatori, ma ribatte pure su quello delle organiche similitudini. E ci rende noto un esemplare dettaglio, di gran valore filologico e immaginale. Una lettera scrittagli da Ernst Jünger nel 1995, a un mese dal compimento del suo centesimo anno, in cui conveniva con lo studioso napoletano che Spengler aveva svolto in qualche modo su di lui il ruolo di maestro: «Lei ha ragione a supporre che Oswald Spengler abbia esercitato un’influenza significativa sulla mia evoluzione spirituale…». Assodato che Spengler era senza mezzi termini considerato da Jünger «decisivo per la sua concezione della storia», Conte indica come elemento tra i più visibili di questa fratellanza ideale il «collegamento fra Operaio e prussianità», quello fra Operaio e Germania, e soprattutto la visuale copernicana della storia, nel senso di una storia e di una politica mondiali, ma «in un’ottica in realtà germanocentrica». Un sano relativismo di prospettiva che non sviliva, ma al contrario rafforzava sia in Jünger sia in Spengler l’ostilità verso l’individualismo cosmopolita borghese e quella «contro i partiti politici, i parlamenti, la stampa liberale e l’economia di libero mercato».
Un altro dei numerosi spunti offerti da Conte è il commento a un libro dell’americano John Farrenkopf, recentemente dedicato a Spengler come “profeta del declino”. Un caso singolare di “spenglerismo” negli USA? Un momento… vediamoci chiaro… Farrenkopf condivide le prognosi infauste di Spengler circa il futuro dell’Occidente, formula un suo pessimismo circa la decadenza del mondo occidentale (pacifismo, crisi demografica e culturale, ottusa pratica di esportare tecnologia ai nemici dell’Occidente, etc.), ma alla fine non manca di sostituire l’America alla Germania come quella struttura imperiale auspicata da Spengler per contenere gli sviluppi verso il basso della civilizzazione. E, da buon americano, non manca neppure di indicare in qualche scritto giovanile del filosofo del tramonto accenni di apprezzamento per la democrazia. Non sono tanto questi aspetti che importano. Conte demolisce alla svelta il tentativo di americanizzare Spengler e di confondere l’impero con l’imperialismo di bottega. Da parte nostra, noi segnaliamo il valore irrinunciabile della duplice lezione di Jünger e di Spengler: la presenza pesante di due autori dal messaggio forte, attualissimo, il cui pensiero di contrasto radicale va strappato di mano ai depotenziatori – certi salotti della new age jüngeriana, amanti del romanziere criptostorico, ma muti sull’ideologo nazionalrivoluzionario… adesso lo Spengler democratico e americanomorfo… – per rimetterlo al centro di un possibile recupero del tradizionalismo rivoluzionario europeo…
Domenico Conte, ben noto al pubblico italiano per essere uno dei pochi esegeti non prevenuti della Rivoluzione Conservatrice – e autore tra molti altri di quell’eccellente libro-monstre che è Catene di civiltà. Studi su Spengler, pubblicato dalle Edizioni Scientifiche Italiane nel 1994 – parla non a caso di albe e tramonti d’Europa. Il pensiero tragico e le prospettive catastrofiste di Jünger e di Spengler nascondono allo stesso modo tutto un tracciato di proiezioni futuribili, assegnando alla nostra civiltà spazi di insorgenza e di contro-storia ancora percorribili. Spengler, fortemente interessato ai momenti aurorali e dinamici della Kultur, era in realtà un agitatore di destini. E Jünger, nel suo Arbeiter, scrisse la frase rivelatrice: «ogni tramonto è preparazione». Entrambi, e insieme ad esempio a un Heidegger, e in maniera tra l’altro non dissimile dal nostro vecchio Oriani, videro il futuro dell’Europa nel suo saper riconoscere una nuova alba, fatta di istinto, volontà e mobilitazione.
* * *
Tratto da Linea del 11 ottobre 2009.
00:08 Publié dans Révolution conservatrice | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : révolution conservatrice, jünger, spengler, weimar, allemagne, europe, littérature, lettres; lettres allemandes, littérature allemande, philosophie, déclin, décadence | |
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mercredi, 11 novembre 2009
Innerlichkeit und Staatskunst - Zum Wirken Friedrich Hielschers
Innerlichkeit und Staatskunst -
Zum Wirken Friedrich Hielschers
"Zwei Tyrannen tun dem Deutschen not: ein äußerer, der ihn zwingt, sich der Welt gegenüber als Deutscher zu fühlen, und ein innerer, der ihn zwingt, sich selbst zu verwirklichen."
- Ernst Jünger
Verfasser: Richard Schapke
Der am 7. März 1990 auf dem Rimprechtshof im Schwarzwald verstorbene Friedrich Hielscher gehörte mit Sicherheit zu den originellsten Ideologen der Konservativen Revolution. Da er sich nach dem Zweiten Weltkrieg noch weniger als ohnehin schon um öffentliche Breitenwirkung scherte, gerieten seine Arbeiten in fast vollständige Vergessenheit, auch wenn Hielschers Name des öfteren in Jüngers "Strahlungen" auftaucht. In jüngster Zeit ist eine regelrechte Wiederentdeckung des unkonventionellen Nietzscheaners zu bemerken - Grund genug für einen Versuch, sich Friedrich Hielschers Leben und Werk zu nähern. Wir greifen hierbei oftmals auf Originalzitate zurück, um den Gegenstand unserer Betrachtung in seinen eigenen Worten sprechen zu lassen. Mitunter sind Zitate und Analysen aus der nach dem Zweiten Weltkrieg veröffentlichten Autobiographie "Fünfzig Jahre unter Deutschen" eingeflochten. Aus inhaltlichen Gründen gehen wir hierbei von der Chronologie der Veröffentlichung ab.
1. Herkunft
Friedrich Hielscher wurde am 31. Mai 1902 in Guben (nach anderen Angaben in Plauen/Vogtland) in eine nationalliberale Kaufmannsfamilie hineingeboren. Gerade 17 Jahre alt geworden, absolvierte er sein Kriegsabitur am Humanistischen Gymnasium, um sich fast unmittelbar darauf einem der gegen Spartakisten und Separatisten oder in den Grenzkämpfen im Osten fechtenden Freikorps anzuschließen. Dieses Freikorps Hasse ging im Juni 1919 aus der MG-Kompanie des ehemaligen Infanterieregiments 99 hervor und kam in Oberschlesien gegen polnische Insurgenten zum Einsatz. Zu den Freikorpskameraden Hielschers gehörte Arvid von Harnack, der später durch seine Mitarbeit in Harro Schulze-Boysens Roter Kapelle zu Berühmtheit gelangen sollte. Die Einheit bewährte sich und wurde in die Reichswehr übernommen, aber Hielscher quittierte den Dienst im März 1920, da er eine Beteiligung am überstürzten Kapp-Putsch gegen die Republik ablehnte.
Es folgte ein Jurastudium in Berlin, das von regelmäßigen Besuchen an der Hochschule für Politik begleitet wurde. Dem Brauch entsprechend schloß Hielscher sich einer Studentenverbindung an und wählte die Normannia Berlin. Nach einer vorübergehenden Mitgliedschaft im Reichsclub der nationalliberalen Deutschen Volkspartei (DVP) traten in Gestalt des aus der SPD hervorgegangenen nationalen Sozialisten August Winnig und des Geschichtsphilosophen Oswald Spengler prägendere politische Einflüsse an ihn heran. Von Winnig übernahm Hielscher die Überzeugtheit von einer weltgeschichtlichen Mission Deutschlands, vom Spengler das zyklische Geschichtsbild. Hinzu kam das in den Werken Ernst Jüngers herausgearbeitete Kriegertum.
Im Jahr 1924 erfolgte der Wechsel nach Jena, wo Hielscher das Referendarexamen bestand und im Dezember 1926 mit Auszeichnung zum Doktor beider Rechte promovierte. Die ungeliebte Beschäftigung als Verwaltungsjurist im preußischen Staatsdienst wurde nach nicht einmal einem Jahr im November 1927 aufgegeben. Die Anforderungen des Studiums behinderten nicht den häufigen Besuch des Weimarer Nietzsche-Archivs. Friedrich Nietzsche sollte dann auch über seine Schwester Elisabeth Förster-Nietzsche der letzte wirklich prägende Bestandteil des sich allmählich herauskristallisierenden Weltbildes sein. Von Dauer war die weitere Beteiligung als Alter Herr am Verbandsleben der Normannia Berlin, wo Hielscher die Bekanntschaft von Persönlichkeiten wie Horst Wessel, Hanns Heinz Ewers und Kurt Eggers machte.
2. Innerlichkeit
Am 26. Dezember 1926 betrat Friedrich Hielscher mit dem Aufsatz "Innerlichkeit und Staatskunst" die Bühne der politischen Publizistik. Der junge Jurist hatte sich auf Rat Winnigs dem nationalrevolutionären Kreis um die Wochenzeitung "Arminius" angeschlossen, dem nicht zuletzt Ernst Jünger das Gepräge gab. Aus der Begegnung mit Jünger entstand eine lebenslange Freundschaft. "Innerlichkeit und Staatskunst" enthält bereits alle wesentlichen Aspekte des Hielscherschen Weltbildes und soll daher ausführlicher dokumentiert werden.
"Seien wir ehrlich: wir stehen nicht am Beginn eines neuen Aufstieges, sondern vor dem Ende des alten Zusammenbruches. Dieses Ende liegt noch vor uns. Wir müssen erst noch durch das Schlimmste hindurch, ehe wir ans neue Werk gehen können. Jeder, der jetzt schon mit irgendeinem Aufbau beginnt, tut sinnlose Arbeit. Das will folgendes heißen. Jede kriegerische Vorbereitung, die auf einen Befreiungskrieg in der Gegenwart oder der nahen Zukunft abzielt, ist wertlose Spielerei und grob fahrlässige Dummheit. Jeder geistige Versuch, einigende Bünde, Verbände, kulturelle Vereinigungen, Weisheitsschulen, oder wie man das Zeug sonst nennen mag, in der Gegenwart zu gründen, ist Selbstbetrug und Unehrlichkeit der inneren Haltung.
(...) Beweise haben in der Welt der Tatsachen keinen Sinn.. Es ist noch nie vorgekommen, daß man politische Gegner durch Beweise bekehrt oder in ihrer Stellung erschüttert hätte. Aber es ist nötig, daß die sich einig werden, die im Grunde ihres Wesens Träger ein und desselben Zieles sind: des heiligen Deutschen Reiches. Zu dieser Einigung bedarf es des gegenseitigen Verständnisses. Dieses Verständnis fehlt. Ihm dient die folgende Begründung. Sie bildet sich nicht ein, daß an dem kommenden deutschen Zerfall irgend etwas zu ändern sei. Aber sie ist der Überzeugung, daß es jetzt schon an der Zeit ist, an der geistigen Haltung zu arbeiten, von der aus der spätere Aufbau allein beginnen kann.
Seit die Germanen in Berührung mit der kraftlos gewordenen und überreifen römisch-byzantinisch-christlichen Kulturenvielfalt gekommen sind, die den Ausgang des sogenannten Altertums bildet, ist ihre innere Haltung unfrei. Seit sie das Denken dieser fremden Welten übernommen haben, unfähig, die kaum zum Ausdruck gekommene eigene Art gegen das jeder Unmittelbarkeit längst entwachsene, zu Ende gedachte fremde Wesen zu schützen, seit dieser Zeit ist die deutsche Haltung zweispältig (sic!). Der Deutsche bejaht den Kampf als solchen; aber die müde Sittlichkeit der Fremden sucht den Frieden. Seit also der deutsche Geist überfremdet ist, wird jede deutsche Kampfhandlung mit schlechtem Gewissen getan, wird halb, kommt nicht zum endgültigen Erfolge und sinkt nach oft prachtvollem Aufschwung immer wieder in sich zusammen. Staatskunst ist die Fähigkeit, die eigenen Kampfhandlungen mit dauerndem Erfolg nach außen zu verwirklichen. Seit der Deutsche überfremdet ist, steht die deutsche Staatskunst allein und hat die deutsche Innerlichkeit nicht geschlossen hinter sich. (...)
Mit Bismarcks Entlassung verwandelte sich das Bismärckische Reich in den Wilhelminischen Staat, in ein Verfassgebilde, dessen Untergang unvermeidbar war. Diese Unvermeidbarkeit zeigte sich im Weltkriege. Wenn kriegerisches Heldentum ein Schicksal wenden kann, dann mußten wir siegen. Aber wir mußten die Fahnen senken, weil hinter dem deutschen Krieger nicht die deutsche Heimat stand als eine Einheit innerlichsten Glaubens, Wollens, Denkens, als eine Welt der ungetrübten reinen und abgrundtiefen Zuversicht. So kam die Niederlage. Der Staat der Weimarer Verfassung ist nicht ein neues Gebilde, das von seinem Vorgänger irgendwie wesentlich verschieden wäre, sondern nur die letzte Gestalt des Wilhelminischen Staates, die dessen alberne, wertlose, erbärmliche Seiten in vorbildlicher Deutlichkeit und - freilich unbewußter - Ehrlichkeit zeigt.
So ist hier nichts mehr zu halten und zu retten. Je eher dieser Staat zugrunde geht, um so besser ist es für die deutsche Sache. Sein weiteres Schicksal ist uns vollendet gleichgültig. Soll ich noch deutlicher werden? Also ist hier nichts mehr zu verbessern. Wenn das noch möglich wäre, dann würde zudem nicht das kindische Hurraschreien scheinkriegerischer Aufzüge von Wert sein, sondern einzig und allein ein verbissenes, unterirdisches, schweigendes und selbstverleugnendes Arbeiten, das vom Kleinsten anfängt, wie Friedrich Wilhelm der Erste angefangen hat. Aber weil es nicht möglich ist, an diesem Staat noch Hand anzulegen, bleibt nur eins übrig: in sich zu gehen, und aus der Tiefe des eigenen Herzens die Zuversicht, den Glauben heraufzuholen, der die deutsche Zukunft tragen und ohne den das neue Werk nicht begonnen werden wird. (...)"
Wir fassen zusammen: Der Zusammenbruch der liberalkapitalistischen Ordnung ist nicht in vollem Gange, sondern er steht erst noch bevor. Vor diesem Kollaps sind jede Aufbauarbeit und jede politische Partizipation zwecklos. Das deutsche Wesen wurde vom westlich-christlichen Materialismus überfremdet, und daher war die Niederlage des verwestlichten Kaiserreiches im Weltkrieg unvermeidbar. Die Republik ist die Fortsetzung des wilhelminischen Staates in anderem Gewande und ebenso wie er dem Untergang geweiht.
Am 30. Januar 1927 legte Hielscher den Aufsatz "Der andere Weg" nach: "Will ein unterworfenes Volk frei werden, so muß es dazu zweierlei tun: es muß erstens innerlich einig werden und zweitens seine staatskünstlerische Begabung betätigen...Für die Betätigung unserer staatskünstlerischen Begabung fehlen uns die Mittel." Der Hauptfeind waren nicht die unterdrückten asiatischen Völker, sondern die "Träger der europäischen Zivilisation...Aber wir bestreiten, daß wir zur Freiheit, d.h. zum selbstherrlichen Gebrauch unserer eigenen Kräfte gelangen können, ohne in entscheidenden Gegensatz zu Europa zu treten...Daher ist es geboten, unsere ganzen Fähigkeiten auf den anderen Weg zu richten, dessen Begehung ebenfalls unumgänglich notwendig ist, auf die endliche Einigung des deutschen Geistes." Angezeigt ist die "mephistophelische Schlangenhaftigkeit und Gewandtheit in der Verschleierung der tiefsten Gründe und Hintergründe". In diesem Kampf sind alle Mittel erlaubt, solange man die eigene Treue nicht verletzt. "Ersichtlich setzt eine solche Handlungsweise eine Sicherheit der inneren Haltung voraus, die kaum überbietbar ist." Der geistige Kampf gilt nicht etwa der etwaigen Undurchsichtigkeit des Handelns, sondern der Vielfältigkeit der fremden Einflüsse. Einzig auf eigenen Willen gegründet ist die Welt eines neuen Geistes, einer machtwilligen Seele zu errichten. "Das ist das Ziel. Der Weg zu ihm führt über eine rücksichtslose strenge Selbsterziehung eines jeden Einzelnen. Er führt über das eindeutige Bekenntnis zu dem Glauben, an den sich die Dichter der alten Sagen, an den sich Eckehart, Luther, Goethe und Nietzsche hingegeben haben. Er führt über die Gestaltung jener Erziehung aus diesem Glauben heraus zur Züchtung eines Geschlechts, das im Opferdienst am deutschen Glauben einig und deshalb, und nur deshalb, berufen ist, das staatskünstlerische Werk zu vollbringen, zu dem die Gegenwart ebensowohl aus einem Mangel an äußerem Willen wie aus innerer Glaubenslosigkeit nicht geeignet ist."
Am 13. Februar 1927 folgte "Die faustische Seele": "Die seelische Zugehörigkeit zum Deutschtum ist das Grunderlebnis der deutschen Menschen. Der letzte große Versuch, sich mit diesem Grunderlebnis im Bewußtsein auseinanderzusetzen, ist Spenglers Lehre von der faustischen Kultur. Der deutsche ist der faustische Mensch. Die faustische Kultur ist das deutsche Seelentum. Spengler sieht es aus dem unendlichkeitsverlorenen Walhall mit seinen tiefen Mitternächten herabsteigen in die Tiefen der Mystik, sieht es zu endlosen Kämpfen, gleichgültig gegen den Tod, das Schwert ziehen, die gotischen Dome wollen den Himmel stürmen, der lutherische Bauerntrotz schlägt drein, ins Grenzenlose schreitet die wälderhafte nordische Musik, unter den zartesten und weltseligsten Melodien ihre gewaltige Einsamkeit verbergend oder sie hinausschreiend in Sturm und Gewitter, aus Not und Elend und Blut steigt das Preußentum empor, und als dem Faust der Zarathustra folgt, erschüttern Wagners Posaunen die Welt und der Preuße Bismarck holt die Krone aus dem Rhein. Dann folgt der Zusammenbruch, und von neuem beginnt der alte Kampf (...)
Ich sehe einen langen Weg. Im Urdämmer der Sage stehen der deutsche Machtwille und die deutsche Innerlichkeit zueinander und sind untrennbar verbunden....Friedrich Nietzsche, der letzte große Träger der deutschen Innerlichkeit, hat den Willen zur Macht gelehrt und so die alte Weisheit wieder geweckt, die von den Tagen der Götter, von den Tagen Sigfrids und Hagens her die deutsche Sittlichkeit verkündet. Wenn unsere Innerlichkeit wieder gelernt haben wird, ihr zu folgen, wenn der deutsche Machtwille nicht mehr alleinstehen wird, erst dann, aber dann sicher, wird die deutsche Zwietracht aufhören, wird sich das deutsche Menschentum vollenden und in seiner Vollendung heimfinden zu dem ewigen Brunnen, aus dem es entstiegen ist."
Verdeutlicht wird diese Darstellung der faustischen Seele durch den Aufsatz "Die Alten Götter". Sagen, Märchen und die germanisch-keltische Mythologie bilden die Heimat der deutschen Seele. Hielscher betont den Kampf als Daseinsprinzip: "Das versteht nur ein Deutscher, daß man sich gegenseitig die tiefsten Wunden schlagen und dennoch die beste Freundschaft halten kann. Denn der Deutsche ist in seinem Innern selber so: hundert- und tausendfältig zerrissen, ein Schlachtgebiet aller holden und unholden Geister, und aus dieser Zerrissenheit seinen Stolz herausholend und eine höhere Einheit, die über allem Ernste sich ein Lächeln bewahrt hat, und über allen Abgründen eine einsame und lichte Höhe, die ihren Glanz in alle Tiefen schickt....Der Kampf ist das Nein, und die Vollendung ist das Ja. Die Geburt des Ja aus dem Nein, die Vollendung im Kampfe, das ist das Lied von den alten Göttern. Es ist das Lied, das alle großen Träger der deutschen Innerlichkeit verkündet haben. Wenn Eckehart die brennende Seele lehrte, in der doch eine ungetrübte schweigende Stille herrscht, wenn Luther im Wirken und durch das Wirken Satans die Allmacht Gottes geschehen sah, wenn Goethe alles Drängen und Ringen als ewige Ruhe in Gott erlebte, wenn endlich Nietzsches Welt des Willens zur Macht, diese Welt des Ewig-sich-selber-Schaffens und Ewig-sich-selber-Zerstörens als endloser Kreislauf zu sich selber guten Willen hatte, so war das immer nur das alte Lied" (der nordischen Mythologie). "So wird der Kampf zum Selbstsinn, und die Treue in diesem Kampfe ist das Höchste. Es gibt nichts anderes. Um des Kampfes willen ist die Innerlichkeit da, weil sie die Kraft zu diesem Kampfe gibt...Das ist eine ganz andere Treue, als die Gegenwart sie kennt. Das ist die Treue, die alles opfert, den Schwur, die Ehre, das eigene Blut; die Treue, die nur das eigene Werk und seine Vollendung im Kampfe kennt."
Das Leben der Völker bemißt sich nach Völkerjahren mit den vier Jahreszeiten. Hielscher zieht zahlreiche Allegorien mit dem Vegetationszyklus eines Baumes. Die Deutschen befinden sich derzeit im Stadium des Winters, ausgelöst durch die "Verstofflichung", den Materialismus der westlichen Zivilisation. Die Entstehung des Materialismus verortet Hielscher bereits zu Zeiten der Renaissance, aus der sich der Frühkapitalismus entwickelte. Der Mensch will nicht mehr gebunden sein, sondern wider seine Natur nur noch von sich selbst abhängen. Religion, Volk, Tradition und Kultur weichen dem Individualismus. Die Menschen haben die Wahl, ob der Winter "die Umkehr oder den Tod bringen (wird), nach unserer Wahl und nach der zukommenden Gnade der Götter".
"Wer die Kälte der Oberfläche ändern wollte, würde als Schwarmgeist scheitern. Desgleichen steht nicht in der Hand der Wurzeln und der Wintersaat und nicht in der Hand des Menschen. Vielmehr ist uns diese Kälte vorgegeben." Jeder Winter birgt den Keim des Frühlings, nicht zuletzt symbolisiert durch die Sonnenwende.
"An der Quelle muß der Strom versiegen, an der Wurzel muß das Unheil absterben. Und in Quelle und Wurzelgrund muß das Heil von neuem gewonnen werden." Das Reich ist noch nicht stark genug, um oberirdisch gedeihen zu können. Es ist verborgen im Inneren seiner Glieder, eines neuen Menschentypus, keine sichtbare Gestalt. Innerlichkeit und Wille zur Macht verknüpfen sich miteinander.
So geht es heute nicht mehr um das Retten des alten abendländischen Leibes, sondern um das Bilden des neuen." Soziale Herkunft und Interessen der Unterirdischen sind gleichgültig. "Und jeder mag unter den Vorbildern sich seinen Helden wählen."
3. Staatskunst
Nachdem Hielscher dergestalt die Notwendigkeit unterstrichen hatte, ein neues Bewußtsein als Grundvoraussetzung erfolgreichen Handelns zu schaffen, wandte er sich außenpolitischen Fragen zu. Im März 1927 veröffentlichte der "Arminius" seinen vielbeachteten Aufsatz "Für die unterdrückten Völker!", der Hielscher gewissermaßen zum Erfinder des Befreiungsnationalismus machen sollte. Wir merken an, daß derartige Gedankengänge auch schon im Werk Moeller van den Brucks auftauchen.
Der Erste Weltkrieg hatte die Völker aller Kontinente aufgerüttelt, so daß jede politische Maßnahme ihre Wirkung verhundertfachte. Auf dem Brüsseler Kongreß der unterdrückten Völker hatten die Farbigen erstmals einmütig ihre Stimme gegen den Westen, gegen Imperialismus und Kolonialismus und für den Nationalismus erhoben. Unter den Bestimmungen des Versailler Diktats war Deutschland mit seiner dem Westen hörigen Demokratie kein souveräner Staat, sondern ebenfalls eine Kolonie. Kein Kontinent stand mehr für sich alleine, sondern neue Aufgaben, Freundschaften und Ziele entwickelten sich. Im Zentrum der Hoffnung Hielschers stand das Erwachen des Giganten China, Indiens oder der arabischen Welt, weniger die Sowjetunion, die ihre "russische" Ideologie allen anderen Völkern aufzwingen wollte und damit kein echter Partner der nach Freiheit strebenden Völker war.
Deutschland ist kein Teil des westlichen Europa, sondern ein Teil des asiatischen Ostens. In der Verehrung des Ostens verbeugt sich der Deutsche "vor einer weiten unendlichen, durchaus uneuropäischen und geheimnisvollen Welt einer sehnsüchtigen und zutiefst ruhigen Weisheit und Selbstsicherheit, aus der er seine Kraft strömen fühle". Die deutsche Innerlichkeit ist ein Widerspruch gegen den Westen und dessen Zivilisationsdenken. "Die Völker des Ostens glauben an unverrückbare Kräfte, denen sie sich verdienstet wissen, aus denen ihre Art entspringt, und zu der sie zurückkehrt, wenn ihre Stunde geschlagen hat. Der Deutsche gehört zum Osten und nicht zum Westen. Der Westen ist Zivilisation, der Osten ist Kultur. Die Zivilisation ist auf dem Gelde und der Berechnung aufgebaut und kennt keine Innerlichkeit. Die Kultur errichtet auf dem Grunde einer unerschütterlichen Gewißheit die Werke einer hohen Kunst, eines demütigen Denkens, einer hingebenden Weisheit. Die Völker des Westens sind Zivilisationsvölker, die Völker des Ostens tragen ihre großen Kulturen."

Im Gegensatz zum kapitalistischen Westen ist der Osten sozialistisch, wobei Sozialismus hier als eine innere Haltung und nicht als theoretisches System zu verstehen ist. Während der Kapitalismus den Menschen seinen Taten entfremdet und dem Nutzen unterwirft, will der Sozialismus die Leistung und das Werk. Die Menschen sind keine Einzelwesen, sondern Glieder von Gemeinschaften. "Der Westen kennt nicht Ideen, sondern Konzerne; er kennt keine Gemeinschaften, sondern wirtschaftliche Verbundenheit."
"Der Westen ist Imperialismus, der Osten ist Nationalismus. Der Nationalismus ist die Folge des Glaubens an die eigene Kultur, der Wille zur Durchsetzung ihrer eigenen Art, der Wille zum Dienst an der Gemeinschaft, die auf der eigenen Kultur beruht. Der Imperialismus ist die Benutzung der nationalen Mittel zur Erlangung wirtschaftlichen Profites, die Umfälschung nationaler Ziele in Wirtschaftsinteressen."
"Wir deutschen Nationalisten werden mit den Nationalisten des Ostens zusammengehen; wir fordern den gemeinsamen Kampf gegen den westeuropäisch-amerikanischen Imperialismus und Siegerkapitalismus, wir fordern die Abkehr der deutschen Wirtschaft von den westlichen Verbundenheiten, die Abkehr der deutschen Geistigkeit vom Westen. Im Osten kämpfen die unterdrückten Völker den gleichen Kampf, den Kampf der Kulturnationen gegen die Zivilisationsvölker, den Kampf der Tiefe gegen die Oberfläche. Verbünden wir uns ihnen. Scheuen wir kein Opfer. Der Osten wartet auf uns. Enttäuschen wir ihn nicht. Wir sind der Vorposten des Ostens gegen den Westen. Der Westen wankt, und der Sturm aus dem Osten hat begonnen. Die deutsche Stunde schlägt."
Hielschers Ausführungen, die sich im übrigen jeder Rassist und Xenophobe einmal etwas intensiver durch den Kopf gehen lassen sollte, trafen auf ein gemischtes Echo. Der Kampfverlag der NS-Parteilinken unterstützte Hielschers internationalistisch-nationalistische Thesen ebenso wie Franz Schauweckers "Standarte". Bezeichnenderweise kam vom hitleristischen "Völkischen Beobachter" und von den Vereinigten Vaterländischen Verbänden schroffe Ablehnung.
Mit seinem philosophisch-politischen Programm stürzte Hielscher sich in die Politik, zunächst eine Reihe geopolitischer Analysen nach obigem Muster im "Arminius" veröffentlichend und jegliche Mitarbeit am Weimarer System heftig kritisierend. Im Juli 1927 beteiligte er sich an der von August Winnig gegründeten Berliner Sektion der Alten Sozialdemokratischen Partei, einer "rechten" Abspaltung der SPD. Als Gruppenorgan fungierte die Zeitschrift "Der Morgen", zu deren Autoren neben Hielscher die Nationalrevolutionäre Eugen Mossakowsky und Karl Otto Paetel gehörten. Anhang aus der Arbeiterschaft konnte kaum gewonnen werden, dafür kamen die bürgerlichen Rebellen.
4. "Das Reich"
Spätestens das ASP-Experiment überzeugte Hielscher von der Sinnlosigkeit tagespolitischer Aktivitäten. In seinen Memoiren "Fünfzig Jahre unter Deutschen" analysiert er die Situation im Nachhinein so: "Will man sich den Ort der Einzelgänger vor Augen führen, so stelle man sich die Parteien als ein Hufeisen vor, an dessen einem Flügel die Nationalsozialisten, an dessen anderem die Kommunisten standen.
Dann finden wir neben den Nationalsozialisten die Deutschnationalen Hugenbergs, neben ihnen die Deutsche Volkspartei Stresemanns und neben ihr das katholische Zentrum, das die Mitte tatsächlich bildete. Links davon sehen wir die Demokraten, hernach die Sozialdemokraten und schließlich die Kommunistische Partei.
Aber mit ihnen schloß sich der Kreis nicht, sondern zwischen ihnen und den Nationalsozialisten klaffte eine Lücke, die sich um so weniger schließen konnte, als die Nationalsozialisten und die Kommunisten bereits nur noch dem Namen nach Parteien waren, in Wirklichkeit aber Horden, und zwar Horden in Bundesgestalt und mit parlamentarischer Maske. Sie wollten Massenbewegungen sein, gaben sich vor ihren gutwilligen Anhängern das Gesicht eines Bundes und spielten nach außen die Partei, um nicht verboten zu werden.
Den Bund kennzeichnet im Aufbau die gegenseitige Verpflichtung zwischen Haupt und Gliedern, im Wesen der Geist, der sie verbindet, sei es nun ein Glaube oder auch nur eine besondere Menschlichkeit, im Sinne der freiwilligen Dienste an diesem Geiste und im Zwecke das Ziel, das er dem Haupte und den Gliedern aufgibt.
Der Horde mangelt im Aufbau die Gegenseitigkeit, im Wesen der Geist, im Sinne der freie Wille und im Zwecke das Ziel. An die Stelle der Gegenseitigkeit tritt der einseitige Gehorsam, an die Stelle des Geistes das Programm, an die Stelle des freien Willens der Zwang und an die Stelle des Zieles der erstrebte Vorteil und Nutzen, sei es des Hordenführers allein, sei es zugleich seiner Garde oder der ganzen Horde.
Die Gestalt des Bundes anzunehmen empfiehlt sich der Horde, wenn das Volk sich wieder nach Bund und Verbundenheit sehnt, weil die Lüge am besten in Gestalt der Wahrheit zu wirken vermag und von ihren abgesplitterten und selbständig genommenen Teilen allein lebt. Mit der Wahrheit zu schwindeln, ist nicht nur die beste, sondern es ist auch die einzige Art der Lüge, die Erfolg haben kann.
Und die Maske der Partei schließlich bietet sich von selber an, weil in Verfallszeiten nicht das Volk, sondern der Bürger herrscht, welcher in den Zweckverbänden der unverbindlichen Parteien sich am besten darzustellen und zu entfalten vermag. (...)
So sehen wir nicht nur an den äußeren Flügeln des Parteienhufeisens zwei offenkundige Horden in Bundesgestalt und mit scheinbündischen Gliederungen wie hier der SA oder der SS und dort dem Rotfrontkämpferbunde, sondern auch bis fast in die Mitte heran jede Partei bemüht, sich eine Horde heranzubändigen oder sich eines Bundes zu versichern. (...)
Zwischen den beiden Hordenflügeln aber kochten die Einzelgänger ihren Trank und bildete sich Bund. Hier schlugen die Flammen von rechts nach links herüber, um der Feuerzange die nötige Glut zu geben."
Auf den Zerfall der "Arminius"-Gruppe folgte ab Oktober 1927 die Zeitschrift "Der Vormarsch", ursprünglich ein Blatt von Kapitän Ehrhardts Wikingbund. Die Schriftleitung lag bei Ernst Jünger und Werner Lass, dem Führer der Schill-Jugend, einem ehemaligen Gefolgsmann des Freikorpsführers Roßbach mit starkem Einfluß in der HJ. Hielscher variierte hier weiterhin seine bekannten Thesen. Der "Vormarsch" wurde zum Zentrum einer bewußt provokativen Militanz. Es kam zur Bildung kleiner revolutionärer Zirkel, die über die Grenzen der Bünde und Parteien zusammenarbeiten. Engere Verbindungen unterhielt der "Vormarsch"-Kreis zur NSDAP, die sich durch ihren sozialrevolutionären Charakter zusehends von den anderen Rechtsverbänden absonderte. Unterhalb der agitatorischen Ebene verkehrte Hielscher in diversen Zirkeln, von denen vor allem der Salon Salinger zu nennen ist. Der jüdischstämmige Hans Dieter Salinger, Beamter im Reichswirtschaftsministerium und Redakteur der "Industrie- und Handelszeitung", versammelte hier einen bunt zusammengewürfelten Kreis um sich. Neben Hielscher sind hier Ernst von Salomon, Hans Zehrer, Albrecht Haushofer, Ernst Samhaber oder Franz Josef Furtwängler, die rechte Hand des Gewerkschaftsführers Leipart, zu nennen.
Im Frühjahr 1928 bildete Friedrich Hielscher, wohl inspiriert durch Salingers Kontaktpool und durch den Schülerkreis des Dichters Stefan George (vor allem in Aufbau und Methode), einen eigenen Zirkel um seine Person. Diesem Kreis fiel beispielsweise indirekt das Verdienst zu, den Brecht-Weggefährten Arnolt Bronnen für die revolutionäre Rechte zu gewinnen. Nach dem Rückzug Jüngers übernahm Hielscher im Juli 1928 gemeinsam mit Ernst von Salomon die Leitung des "Vormarsches", dessen Auflage auf 5000 Exemplare gesteigert werden konnte. Der NS-Studentenbund warb um den unter Studenten und Bündischer Jugend zugkräftigen Intellektuellen, um ihn als Veranstaltungsredner für sich zu gewinnen. Das Verbandsorgan der Ehrhardt-Anhänger und rechten Paramilitärs entwickelte sich zu einer übernational-antiimperialistischen Monatszeitung, die jedoch durch die wirtschaftliche Inkompetenz von Verlagsleiter Scherberning behindert wurde.
Dem Zeugnis Ernst von Salomons zufolge war der Hielscher-Kreis in seiner Anfangsphase jedoch ein Tummelplatz menschlicher Intrigen und Eitelkeiten. Im Herbst 1928 reagierte Hielscher auf die sich abzeichnende Bauernrevolte in Norddeutschland mit der schwächlichen Forderung nach Verminderung der Steuern und einer Agrarreform - offensichtlich hatte er das revolutionär-anarchistische Potential der entstehenden Landvolkbewegung nicht erkannt. Der verärgerte Salomon urteilte im Februar 1929: "Hielscher hat sich für mein Empfinden völlig ausgeschöpft, was er betreibt, ist Leerlauf, schade um ihn. Aber er erkennt das selber nicht, will die Dinge forcieren und erreicht dadurch erst recht nichts. Außerdem führt er einen absonderlichen Lebenswandel, der an seinen Nerven zehrt. Dabei haben die ganzen Leutchen...dickste Illusionen im Kopp..." Hielscher bilde sich ein, "man könne Politik ohne Macht, allein durch Geist und gute Verbindungen machen". Zugleich hielten die heftigen internen Auseinandersetzungen im Hielscher-Kreis mit Intrigen, Verleumdungen und Verdächtigungen an. Salomon kehrte dem "Vormarsch" daraufhin mit der Bemerkung, hier müsse noch einmal "bannig femegemordet" werden, den Rücken und schloß sich den Landvolkterroristen an.
Trotz eines Hitler-Verdikts gegen den "Vormarsch", der angeblich mit dem "asiatischen Bolschewismus" liebäugele, stellte sich der mächtige Gregor Strasser am 25. Oktober 1929 hinter die Gruppe. Ernst Jünger, Franz Schauwecker oder Friedrich Hielscher seien Beispiele für die steigende Tendenz, "daß der Nationalsozialismus beginnt, magnetgleich andere Kreise, andere bisher in ihrer Sphäre festgefügte, gleichwertige Geister an sich zu ziehen." Am gleichen Tag schrieb Hielscher in den "Kommenden": "Stoßen wir also bei unserer nationalistischen Arbeit auf politische Handlungen der russischen Außenpolitik, die gegen den Westen gerichtet sind, so werden wir diese Handlungen begrüßen und nach Möglichkeit fördern. Stoßen wir auf die kommunistische Ideologie selbst, die auf dem dialektischen Materialismus beruht, so werden wir ihr das idealistische Bekenntnis zur Deutschheit entgegenzustellen haben; und wir werden nicht zu vergessen haben, daß der Sozialismus, den wir wünschen, die Unterordnung der Menschen unter den nationalistischen Staat auf wirtschaftlichem Gebiet bedeutet, während der Sozialismus, den Marx anstrebt, das staatenlose, größtmögliche Wohlergehen der größtmöglichen Zahl will."
Im Sommer 1929 legte Hielscher die Chefredaktion des "Vormarsch" nieder, um sich einem eigenen Zeitschriftenprojekt und einem weltanschaulichen Grundlagenwerk zu widmen. Die Monatsschrift "Das Reich" sollte sich zu einem der maßgeblichen Blätter der nationalrevolutionären Szene entwickeln, in der die brillantesten Köpfe aus der Grauzone zwischen NSDAP und KPD zu Wort kamen. In der Rubrik "Vormarsch der Völker" gewährte man den antikolonialen Befreiungsbewegungen und ihren Vertretern breiten Raum, folgerichtig spielten auch vulgärgeopolitische Betrachtungen eine Rolle. Um die Jahreswende 1930/31 beteiligte Hielscher sich gemeinsam mit Jünger und Paetels Sozialrevolutionären Nationalisten an der Deutsch-Orientalischen Mittelstelle zur Förderung des antiimperialistischen Befreiungsnationalismus. Gelder beschaffte Franz Schauwecker vom Stahlhelm-nahen Frundsberg-Verlag, und neben dem altgedienten Putschisten F.W. Heinz sollte Schauwecker sich zu einem der enthusiastischsten Hielscher-Gefolgsleute entwickeln. Weitere Finanzmittel kamen vom unvermeidlichen Kapitän Ehrhardt. Die Debütausgabe des "Reiches" erschien am 1. Oktober 1930, und kein Geringerer als Ernst Jünger steuerte zur Eröffnung einen Beitrag bei.
Hielscher selbst schrieb in "Die letzten Jahre", Weimar und mit ihm die Wilhelminische Ordnung seien im Zerfall begriffen, es gehe wie seine Parteien bis hin zu NSDAP an Selbstzersetzung infolge von Unfähigkeit der Führer zugrunde. Die Weltwirtschaft kranke an der Weimarer Republik wie an einer unheilbaren Wunde. Asien blicke gärend auf Deutschland, von wo der Funke kommen sollte, der den letzten Sprengstoff entzündet: "Die Versuche des Westens, von der Wirtschaft her die kommende Gefahr zu bannen, verfangen nicht mehr. Die Mächte des Ostens tasten eine jegliche nach einem neuen Halt; aber keine hat die Lösung. Niemand weiß weiter. Und in dem deutschen Raum inmitten dieser tausendfältigen Verwirrung brodelt es unaufhörlich.
Hier ist der Ort und hier liegt die Aufgabe für die Menschen des Reiches, die durch den Weltkrieg hindurchgegangen sind; des heimlichen Reiches, das inmitten der Völker sichtbare Gestalt annehmen will. Wer dem Weltkriege seine Haltung und seine Zuversicht verdankt, weiß, daß er ein Sieg des Reiches gewesen ist, den Osten erweckend, den Westen zersetzend, den Zusammenbruch des wilhelminischen Fremdkörpers vorbereitend...
Die Wissenden erkennen sich auf den ersten Blick. Sie haben einander gefunden und finden sich weiter, seitdem die Verwandlung des Weltkrieges ihr Bewußtsein erfüllt hat. Seit dieser Zeit ist die Unruhe zur Arbeit geworden und die Suche zum Entdecken...Die Menschen des unsichtbaren Kerns haben einander entdeckt. Sie rühren keinen Finger gegen den Westen, der sich imn Staat der Weimarer Verrfassung so guit wie jenseits des Atlantischen Ozeans von selbst zerstört. Was heute Erfolg heißt, ist ihnen gleichgültig. Sie haben die große Geduld.
Denn die Entscheidung, die sich heute vorbereitet, liegt tiefer als irgend eine Entscheidung der bisherigen Geschichte. An ihr sind alle Mächte beteiligt. Der Weg zu ihr ist Bekenntnis und Staatskunst zugleich. Nur wo beides ineinanderwirkt, geschieht d a s R e i c h."
Neben dem "Reich" widmete Hielscher sich weiteren publizistischen Projekten, beispielsweise beteiligte er sich am 1931 von Goetz Otto Stoffregen herausgebenenen Sammelband "Aufstand - Querschnitt durch den revolutionären Nationalismus". Im Beitrag "Zweitausend Jahre" hieß es: "Das Kennzeichen, durch welches sich unsere Geschichte von der jedes anderen Volkstums unterscheidet, ist die wechselseitige Verschlungenheit von Innerlichkeit und Macht. Unsere Innerlichkeit enthält den Willen zur Macht; und unsere Macht enthält den Willen zur Innerlichkeit." Innerlichkeit und Machtwille wurden durch den Einbruch des Christentums getrennt. Der Weg der Innerlichkeit führt von der Ursage über Mystik, Reformation und Idealismus bis hin zu Nietzsche. Der Weg der Macht wiederum verlief von Theoderich den Großen über Heinrich VI von Hohenstaufen, Gustav Adolf und Friedrich den Großen bis zu Bismarck. Die wechselseitige Bezogenheit von Innerlichkeit und Macht hatte niemals aufgehört. Immer wieder erfolgten Anläufe, die Einheit beider Begriffe herzustellen, und unter der Macht des Reiches alle germanischen Stämme zu einen. "So ist nun in dreifachem Anlauf vor aller Augen das Ziel errichtet worden, das die Macht des Reiches zu verwirklichen bestimmt ist; und es bedarf der Waffe, mit der die Deutschen das ihnen jetzt sichtbare Ziel erreichen können. Diese Waffe heißt Preußen. Preußen ist kein Stamm, sondern eine Ordnung. Es gibt nur Wahlpreußen. Aus allen Stämmen des Reiches strömen die wagemutigsten, abenteuerlichsten, kriegerischsten Herzen zusammen; es entsteht der Staat Friedrich Wilhelms I und Friedrichs des Großen." Ziel war der Kampf gegen den westlichen Materialismus, "und gerade gegenüber diesem bereits in Deutschland eingedrungenen Gift."
"Ob Luther gegen Rom kämpft, oder ob Goethe den Beginn des Johannesevangeliums neu übersetzt: ‚Im Anfang war die Tat' - immer drängt die Innerlichkeit zum Tun; sie enthält den Willen zur Macht, die Sehnsucht, die das Amt herbeiglaubt und die Menschen zum Werke drängt.
In Nietzsche vollends wird dieser Drang zum bewußten Wollen: die Innerlichkeit erkennt ihr Getriebenwerden als Willen zur Macht." Nietzsche forderte den "ins Geistige gesteigerten Fridericianismus", bindet dieses neue Menschentum an Gestalten wie Friedrich II von Hohenstaufen und Friedrich II. den Großen. Auf Nietzsche und Bismarck folgte der Weltkrieg, der "trotz der scheinbaren Niederlage den größten Sieg bedeutet, den Deutschland jemals errungen hat". "Zum ersten Mal, seit die Erde steht, gibt es keine voneinander abgetrennten Kampffelder mehr, so wie es z.B. den ostasiatischen, den vorderasiatischen oder den Kulturkreis des Mittelmeeres gegeben hat, sondern die Erde ist ein einziges Schlachtfeld geworden, ein Chaos, in welchem alle Kräfte zugleich um den Sieg streiten, ein Chaos, das alle Kräfte durch diesen Streit verwandelt und von Grund auf umschöpft."
Im gleichen Jahr legte Friedrich Hielscher sein mit Hilfe des Frundsberg-Verlages herausgebenes Grundlagenwerk "Das Reich" nach. Ein Volk entsteht Hielscher zufolge aus der Gemeinschaft von Schicksal und Bekenntnis. Das Blut erhält seinen Rang durch eine Entscheidung und nicht durch die Biologie. Deutschtum/Deutschheit leiten sich nicht durch Abstammung und staatliche Definition, ab, sondern aus Gesinnung und Glauben. Der Reichsbegriff wird vom politischen zum religiös-metaphysischen, in der Geschichte wirkenden Prinzip einer föderativen Ordnung Europas - unter Führung des preußischen Geistes. Die Nationalstaaten sollten sich in Stämme und Landschaften auflösen, und aus diesen verkleinerten Einheiten war etwas Größeres zu schaffen, das über die Nationalstaaten hinausging.
Ergänzend heißt es in "50 Jahre unter Deutschen": "In Wahrheit muß...im Innern des Menschen angefangen werden, im eigenen zuerst und dann im Bunde mit denen, die des gleichen Willens sind. Aber das ist mit keiner noch so reinen Sittlichkeit zu schaffen, schon gar mit keiner Moral und vollends nicht mit Anordnungen und Vorschrift." Sondern nur der Glaube "gibt uns das Gesetz als das Gebot der Götter"
"Das Reich": "Die schöpferische Kraft kann nicht auf dem einen Gebiet wirken und auf dem anderen nicht. Sie kann nicht vor dem Alltag halt machen oder vor den Umständen oder der Not. Sie erfüllt den ganzen Menschen. Er mag anpacken, was er will, er mag versuchen, sich in nichtige Dinge zu flüchten: Die schöpferische Kraft folgt ihm, sie treibt ihn weiter, und am Ende erkennt er, daß alles, was er angefaßt hat und was ihm begegnet ist, notwendig und gut gewesen ist um seines Werkes willen, für das er lebt, für das er gelebt wird, das durch ihn hindurch wirkt. Darum bilden alle Menschen, hinter denen ein und dasselbe Wesen steht, nicht auf irgendwelchen einzelnen Gebieten, sondern ihr ganzes Leben hindurch, in jeder Hinsicht unabdingbar eine Einheit des Wirkens. Es müssen ein und dieselben Ereignisse sein, die sie fördern oder hemmen: ein und dieselben Begegnungen müssen für sie Tiefe oder Licht bedeuten: sie haben dasselbe Schicksal, das heißt aber: sie sind ein Volk. Kein Ding in Raum und Zeit bindet endgültig: nicht die Abstammung, nicht die Sprache, nicht die Umgebung. Dem alleine steht der einzelne frei gegenüber. Allein seine schöpferische Kraft, die seinen Willen überhaupt erst bildet, aus dem sein Wille in jedem Augenblick gebildet wird, bindet ihn notwendig, sie ist der Kern seines Wesens. Damit unterscheidet sich ein Volk von einem bloßen Abstammungsverband und von jeder Verbindung, die nur durch äußere Umstände zusammengehalten wird...Nur die seelische Besessenheit durch dieselbe schöpferische Kraft gestaltet aus einer Vielheit vertretbarer Menschen ein Volk, indem ein und dieselbe Wirklichkeit durch die Tat bezeugt wird. Das Volk ist Einheit des Bekenntnisses und des Schicksals. (...) Geduld ist die oberste Tugend dessen, der verwandeln will. Wer keine Geduld hat, erreicht nichts.
Die Entscheidung, die sich hier vorbereitet, bedeutet die vollkommene Vernichtung der heutigen Ordnungen und Güter; und es ist an der Zeit, mit jenen hoffnungslosen Gedanken aufzuräumen, die noch retten wollen, was zu retten ist. Es ist nichts mehr zu retten. Alle äußeren Gestaltungen der Gegenwart brauchen und unterstützen die westliche Verfassung des öffentlichen und des Einzellebens. Sie setzen die Heiligkeit des uneingeschränkten Eigentums voraus, den Verdienst als treibenden Anreiz des Handelns und die Wohlfahrt aller als Ziel der Gemeinschaften. Hier darf nichts gerettet werden. Die inneren Güter aber, die nicht des Westens, sondern des Reiches sind, sind unzerstörbar. Wer sie für gefährdet hält, kommt für die deutsche Zukunft nicht in Frage. Denn er glaubt nicht an sie. Wer glaubt, zweifelt nicht.
Die Vernichtung dessen, was heute besteht, ist sogar notwendig. Denn daß der Westen die Entscheidung gerade in dem Raume zwischen Rhein und Weichsel sucht, liegt an dem Rang, den dieses Gebiet innerhalb der - westlichen - Weltwirtschaft besitzt. Weil China, Indien und Rußland bereits zum größten Teile aus ihr heraus gefallen sind, darf sie Deutschland nicht auch noch verlieren, um keinen Preis. Sonst ist sie selbst verloren. Darum setzt der Untergang des Westens die Vernichtung dessenh voraus, was heute Deutschland heißt, was mit dem Wesen des Reiches nur mehr den Namen gemeinsam hat.
Die Ereignisse des Dreißigjährigen Krieges werden gering vor dieser Zukunft. Er hat die Erde noch nicht aufgerufen. Aber der Erste Weltkrieg hat es getan; und dadurch wird die Wucht der nächsten Jahre, der nächsten Jahrzehnte, der nächsten Jahrhunderte größer, als die der fünftausend Jahre bewußter Erdgeschichte, auf die wir zurückblicken können. Wer von dem Werke, das ihm obliegt, die Erhaöltung und Bewahrung überkommender Dinge erwartet, zeigt nur, daß er die Größe der Verwandlung nicht erkannt hat, in der die Völker seit 1914 leben.
Es gibt heute keine sichtbaren Werte des Reiches. Es lebt inwendig in den Herzen; oder es würde nicht leben.Zerschlagen muß das Eigentum werden, das dem Westen gehört, das den westlichen Menschen gehört. Der Westen würde längst besiegt sein, wenn er nicht die Geister der Menschen gefangen hätte, wenn nicht wirklich jeder, der um seines Vorteiles willen lebt, damit zum Werkzeuge, zum Untertan und Helfer des Westens würde. Zerschlagen muß die ständische Haltung werden, weil die hierarchische Befriedung der Stände, die - gutgläubig oder nicht gutgläubig - vom Süden her verkündet wird, nur der pax Romana, der friedevollen Herrschaft Roms sich einfügt, welche die Völker dem Heiligen Stuhle unterwirft, und weil die Ziele Roms mit denen des Westens gemeinsam auf die Erhaltung des Staates der Weimarer Verfassung gerichtet sind. Zerschlagen muß die Möglichkeit der kolonialen Ausdehnung werden, weil der Herrschaftsanspruch des Reiches nichts mit dem kolonialen Märktekampf zu tun hat, weil, nicht nur der Begriff der ‚Kolonie', sondern auch jedes koloniale Streben dem Willen zur prosperity und nicht dem Willen zur Macht dient.
Man darf gewiß sein, daß die allernächsten Jahre diese Vernichtung vorbereiten und fördern werden. Jener Gleichlauf der Selbstzersetzung des Westens und des Aufbaus der Reichszellen, jene langsame und zögernde Annäherung zweier Bahnen, die sich erst im Augenblick der Entscheidung überschneiden, deren Überschneidung der entscheidende Augenblick ist, prägt sich bereits heute - und von Tag zu Tag mehr - in der Verelendung des Volkes aus. Es wird nicht fünf Millionen, sondern fünfundzwanzig Millionen Arbeitslose geben. Es wird nicht mehr Haß und Hoffnung geben, sondern nur noch Verzweiflung und Zuversicht.
Diese Zuversicht, welche die kommende Vernichtung bejaht, glaubt an das unvernichtbare ewige Wesen des Reiches. Sie weiß, daß im Wandel der sichtbaren Geschichte immer nur die unsichtbare Wirklichkeit lebt. Sie weiß, daß eine jede Kraft des Ewigen selber unwandelbar und ewig ist, und daß kein Werk, kein schöpferisches Tun um des zeitlichen Seins willen geschieht, sondern immer und nur um der Macht des Reiches willen, welches sein zeitliches Reden und Schweigen, Tun und Stillesein, sichtbares oder verborgenes Bildnis heraufführt, wie es ihm beliebt. Das kriegerische Herz verwechselt die zeitliche Erhaltung nicht mit der göttlichen Unsterblichkeit. Es ist unsterblich und freut sich der zeitlichen Vernichtung als der Bürgschaft seiner unüberwindlichen Gewalt. Der Untergang, dem sich die Deutschen, und das heißt immer und immer wieder: die Menschen des Reiches, heute aussetzen, führt die Freiheit herauf, um die seit der ersten Schlacht des Ersten Weltkrieges gekämpft wird, die Freiheit, welcher als erwünschtes Werkzeug der Westen selber dient, dessen Griff über die Erde das Zeitalter der großen Kriege des Reiches ermöglicht."
5. Unterirdisch im Dritten Reich
Die Nationalisten alten Schlages und die KPD konnten hier begreiflicherweise nicht folgen. Ernst Niekisch urteilte: "Das ist ja nicht mehr Nationalismus". Alfred Kantorowicz erkannte in der Vossischen Zeitung am 14. September 1931 als einer der wenigen, wohin die Reise ging: Das sei weder Politik noch Philosophie, sondern Theologie. Otto-Ernst Schüddekopf bemerkt sehr treffend, die Disproportion zwischen dem engen deutschen Nationalismus des 19. Jahrhunderts und den heraufnahenden globalen Machtkämpfen suchte man im radikalen Nationalismus Weimars zu überwinden. Der Sprung in die Freiheit durch die Idee des "Reiches" der Deutschheit, die mit den Voraussetzungen des deutschen Nationalstaates nichts mehr zu tun hat - der Nationalsozialismus bedeutete demgegenüber einfach Reaktion. Kollektivistisches Denken und bolschewistische Lebensform wurden als typenbildende Kraft akzeptiert. So konnte man die alten Massenparteien aus den Angeln heben und sich selbst als die die Zukunft des Reiches bestimmende Kraft definieren.
Nach der NS-Machtergreifung stellte Friedrich Hielscher die Herausgabe des "Reiches" ein, um sich der unterirdischen Arbeit gegen den Hitlerismus zu widmen. Ziemlich zutreffend rechnete er mit einer Dauer des Tausendjährigen Reiches von ca. 12 Jahren, während der Großteil der nationalrevolutionären Parteigänger Hitler zu diesem Zeitpunkt nicht ernst nahm. Während Persönlichkeiten wie Schauwecker sich der neuen Ordnung anpaßten, blieben Friedrich Hielscher, die Gebrüder Jünger und Ernst Niekisch als intellektuelle Kristallisationspunkte des nationalrevolutionären Untergrundes. Der Hielscher-Zirkel entwickelte sich zu einer kleinen Untergrundzelle, zu der auch der ehemalige Ehrhardt-Adjutant Franz Liedig gehörte. Über Liedig und August Winnig hielt die Gruppe lockeren Kontakt zu oppositionellen Militärs. Verbindungen bestanden zur sozialdemokratischen Gruppe um Mierendorff, Leuschner, Haubach und Reichwein.
Von größerer spiritueller Bedeutung war die 1933 nach dem Umzug nach Potsdam erfolgte Gründung der Unabhängigen Freikirche UFK als heidnisch-pantheistischer Glaubensbewegung auf indogermanischer Grundlage: "Ich glaube an Gott den Alleinwirklichen. Ich glaube an die ewigen Götter. Ich glaube an das Reich." Heidnische Elemente aus der deutschen Klassik und Romantik wurden mit dem ketzerischen Pantheismus eines Johannes Scotus Eriugenas, Nietzsche und dem überlieferten keltisch-germanischen Volksglauben verknüpft zu einer sehr bald für Außenstehende äußerst schwer zu erfassenden theologischen Einheit. Die Theologie der UFK war kein statisches Gebilde, sondern wie das Reich eine dynamisch weiterzuentwickelnde Aufgabe.
1934 beteiligte Hielscher sich am von Curt Horzel herausgegebenen Sammelband "Deutscher Aufstand" und veröffentlichte wahrhaft prophetische Sätze: "Erster Satz: Der wilhelminische Staat hat den Krieg verloren, aber Deutschland hat ihn gewonnen.
Zweiter Satz: Deutschland hat den Krieg nicht nur dadurch gewonnen, daß es neue innere Kraftquellen erschlossen hat, sondern auch durch die Erschütterung der ganzen Erde, durch die alle Voraussetzungen aller Völker ins Wanken geraten sind.
Dritter Satz: durch die von Deutschland ausgehende Erschütterung ist es zum entscheidenden Lande auch des vor uns stehendem Zweiten Erdkrieges geworden." Diesen hatten schon Nietzsche, Trotzki und Ludendorff prophezeit. "Es leuchtet ein, daß dort, wo alle Kräfte sich überschneiden, die Entscheidung fallen muß." Der Kampf zwischen Imperialismus und Revolution wird hier ausgefochten, zwischen Bolschewismus und Hochkapitalismus, zwischen Asien und West. Deutschland als Land der Mitte sucht nach einer Synthese zwischen den Gegensätzen. Als Ausweg forderte Hielscher den Kontinentalblock Deutschland-Sowjetunion-China.
Eine beinahe antik anmutende Tragödie nahm ihren Anfang, als Hielschers Freund und Schüler Wolfram Sievers 1935 zum Geschäftsführer der SS-nahen Kulturstiftung Ahnenerbe avancierte. Die völkisch-indogermanischen Elitevorstellungen der Hielscher-Gruppe trafen sich durchaus mit denjenigen der SS. Hatte Hielscher sich in den Elfenbeinturm zurückgezogen, so versuchte der aktivistische Praktiker Sievers nun, das Konzept in die Tat umzusetzen und geriet außer Kontrolle. Zunächst beteiligte der Geschäftsführer sich daran, das bäuerlich-defensive Element des Reichsnährstandes aus dem Ahnenerbe hinauszudrängen und stattdessen dem soldatischen Charakter der SS-Ideologie mehr Platz zu verschaffen. Von Bedeutung war neben frühgeschichtlichen, volkskundlichen und indogermanologischen Forschungen z.B. der Versuch, die deutschen Hochschulen zwecks Schaffung eines neuen wissenschaftlichen Geistes von der Schutzstaffel infiltrieren zu lassen. Im Januar 1941 legte Sievers in einem internen Memorandum die Ziele der Erforschung von Raum, Geist und Tat des nordischen Indogermanentums dar: "Hauptziel ist es, vom Kulturellen her in Deutschland selbst das Reichsbewußtsein neu zu wecken, bezw. zu vertiefen, von dessen einstiger Größe beispielsweise ein Straßburger Münster, die Prager Burg, das Fuggerhaus auf dem Warschauer Altmarkt, die flandrischen Tuchhallen noch heute Zeugnis ablegen über Jahrhunderte hinweg, in denen das Reich schwach und im böhmisch-mährischen Raum, in den Niederlanden, im Flamentum, in der Schweiz das Gefühl der Zugehörigkeit zum Reich verloren gegangen war. Es wird notwendig sein, die Verbindungen bloß zu legen, die dennoch niemals abgerissen sind, die Überfremdung durch Kirche, Liberalismus, Freimaurerei und Judentum hinwegzuräumen und die Wiedervereinigung der Menschen germanischen Blutes im Reich zu erleichtern, das - lange seiner selbst durch internationale Ideologien entfremdet - trotz allem germanische Art am stärksten gewahrt hat."
Mit Kriegsausbruch verstrickte das Ahnenerbe sich in kulturelle Beutezüge im besetzten Europa und in verbrecherische Menschenversuche, die Sievers nach dem Zusammenbruch die Hinrichtung einbringen sollten. Immerhin gestattete die Tätigkeit für das Ahnenerbe ab 1937 auch Hielscher, unter dem Deckmantel wissenschaftlicher Aufträge umherzureisen und Verbindungen zu Oppositionellen zu halten. Am 2. September 1944 wurde er in Marburg wegen seiner Beziehungen zu Mitverschwörern des 20. Juli verhaftet und ins Berliner Männergefängnis an der Lehrterstraße verbracht. Die Gestapo übersah die Beziehungen zu Franz Liedig oder Hartmut Plaas und interessierte sich vor allem für die Kontakte zu Haubach, Reichwein und dem Grafen von der Schulenburg. Der alarmierte Sievers erwirkte am 19. Dezember 1944 die Haftentlassung. Hielscher mußte sich zur Frontbewährung melden, die er bei einer Ersatz-Nachrichtenabteilung verbrachte, ohne auch nur einen Schuß abzugeben. Nach dem Zusammenbruch konzentrierte Friedrich Hielscher seine wissenschaftliche und weltanschauliche Arbeit auf das studentische Verbandsleben und die Unabhängige Freikirche.
"Der Blick auf die Vergangenheit lehrt uns die Notwendigkeit, der Blick in die Zukunft lehrt uns die Freiheit. Die Vergangenheit zeigt, was vorgegeben, die Zukunft, was uns aufgegeben ist. Die Zeit ist weder unser Herr, noch unser Feind oder Freund, sondern die Zeit sind wir selber als die Wandelnden und sich Verwandelnden, und jeder ist es zu seinem Teile. Wer also der Zeit absagt, sagt damit entweder anderen ab oder sich selbst und seiner eigenen Aufgabe. Und zwar Anderen, die heute so herrschen, wie man nicht herrschen sollte, oder sich, indem er jenen gehorcht.
Das Zweite liegt uns fern. Und damit sind wir gebunden, der unrechten Herrschaft die Wurzel abzugraben. Also doch gebunden? Jawohl; und wir haben nur die Wahl, entweder gebunden im Gewissen und damit frei vor der Welt, oder unverbindlichen Gewissens und damit der Welt untertan zu leben.
Auch ist festzuhalten, daß die Freiheit oder Untertänigkeit vor der Welt von anderer Art ist als die Gebundenheit oder Ungebundenheit des Gewissens. Dort geht es um unsere Bewegungsfreiheit, die wir zu verteidigen oder preiszugeben uns entschließen müssen, hier um unsere Willensfreiheit, mit der wir uns an das binden oder nicht binden, was uns im Gewissen geboten ist.
Und verknüpft sind beide, die Willens- und die Handlungsfreiheit, nur insoferne, als sich über kurz oder lang der zweiten begibt, wer die erste mißbraucht." (Fünfzig Jahre unter Deutschen)
Literaturhinweise:
Peter Bahn: Glaube - Reich - Widerstand. Zum 10. Todestag Friedrich Hielschers, in: wir selbst 1-2/2000
Louis Dupeux: "Nationalbolschewismus" in Deutschland 1919-1933, München 1985
Friedrich Hielscher: Innerlichkeit und Staatskunst, Arminius 26.12.1926
Friedrich Hielscher: Der andere Weg, Arminius 30.01.1927
Friedrich Hielscher: Die Faustische Seele, Arrminius 13.02.1927
Friedrich Hielscher: Die Alten Götter, Arminius 20.02.1927
Friedrich Hielscher: Für die unterdrückten Völker! Arminius 20.03.1927
Friedrich Hielscher: Fünfzig Jahre unter Deutschen, Hamburg 1954
Friedrich Hielscher: Das Reich, Berlin 1931
Curt Hotzel: Deutscher Aufstand, Stuttgart 1934
Michael H. Kater: Das "Ahnenerbe" der SS 1935-1945. Ein Beitrag zur Kulturpolitik des Dritten Reiches, Stuttgart 1974
Markus Josef Klein: Ernst von Salomon. Eine politische Biographie, 1994 Limburg an der Lahn
Susanne Meinl: Nationalsozialisten gegen Hitler. Die nationalrevolutionäre Opposition um Friedrich Wilhelm Heinz, Berlin 2000
N.N.: Das Innere Reich, in Sturmgeweiht, Ausgabe Sommer 1995
Karl O. Paetel: Versuchung oder Chance? Zur Geschichte des deutschen Nationalbolschewismus, Göttingen 1965
Otto Ernst Schüddekopf: Linke Leute von Rechts. Nationalbolschewismus in Deutschland von 1918-1933, Stuttgart 1960
Sonnenwacht. Briefe für Heiden und Ketzer, Ausgabe 12, 2000
Goetz Otto Stoffregen (Hrsg.): Aufstand. Querschnitt durch den revolutionären Nationalismus, Berlin 1931
ZIRKULAR, Ausgaben 1 bis 3, 2001
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lundi, 09 novembre 2009
Promotie over Heidegger en Jünger
Promotie over Heidegger en Jünger bereidt nieuw soort denken voor
Voorsprong na techniek
Thomas Blondeau / http://www.vincentblok.nl/
Afgelopen week promoveerden twee filosofen aan wat gekscherend wel eens de ‘Leidse Heideggerschool’ genoemd wordt. Mare sprak met één van hen. Dr. Vincent Blok over zijn proefschrift dat in een confrontatie tussen schrijver Ernst Jünger en filosoof Martin Heidegger een omwenteling van de menselijke bestaanswijze voorbereidt.
De Duitse filosoof Martin Heidegger (1889 – 1976) zag zich vanaf het allereerste begin van zijn denken, geconfronteerd met de alomtegenwoordigheid van de techniek. Zijn inzet is geweest om een antwoord op het wezen ervan te formuleren.
De Duitse schrijver Ernst Jünger (1895 – 1998) formuleerde in zijn boek Der Arbeiter hoe het mensenslag van de arbeider in een technische wereld nihilisme kan overwinnen en de ontdekker kan zijn van nieuwe filosofische horizonten.
In zijn proefschrift Rondom de vloedlijn. Filosofie en kunst in het machinale tijdperk, een confrontatie tussen Heidegger en Jünger dat verleden week verdedigd werd, betoogt dr. Vincent Blok in navolging van Heidegger dat techniek alomtegenwoordig is en geen uitzondering toelaat. Ook protest tegen deze heerschappij is doortrokken van techniciteit. Wil de mens kunnen nadenken over techniek zonder ermee samen te vallen, dan moet worden gevraagd naar onze methode van spreken. Hier komt de filosofie van Heidegger en het dichten van Jünger om de hoek kijken. Hoewel het stellen van vragen in techniek gemarineerd is, toch een paar vragen aan Blok.
Wat heeft u bewogen tot het schrijven van dit proefschrift?
‘Vroeger begreep ik mijn eigen doen en laten in termen van het anti-imperialisme. Ik zat in de kraakbeweging en hielp mee met acties tegen de Zuid-Afrikaanse apartheid. Aan mijn anti-imperialistische houding lag de ervaring van de principiële “onwaarheid” van het imperialisme ten grondslag, en het ideaal van een alternatieve bestaanswijze die niet aan machtsuitoefening gebonden was. Als je op een gegeven moment bemerkt dat het imperialisme van bedrijven en staten een politiek-economische vertaling is van de struggle for existence als aard van het leven, dan is het anti-imperialisme geen reële optie meer. Ook het anti-imperialistisch verzet is dan doortrokken van de struggle for existence, dus van imperialisme. De ‘onwaarheid’ van het imperialisme kan dan alleen nog worden getoetst door de filosofische vraag naar het wezen van de macht. Zo ben ik tot mijn bezinning op het wezen van het imperialisme in het proefschrift gekomen.’
Martin Heidegger Kun je de vraag van het proefschrift samenvatten in hoe men in het tijdperk van de techniek nog kan denken en dichten?
‘Als je vraagt naar het wezen van de macht, dan is niet duidelijk hoe je spreekt. Een uitspraak over het wezen van de macht die zelf van machtswellust doortrokken is, heeft haar onderwerp al in de rug. Ik kan dit misschien illustreren aan de hand van een voorbeeld.
‘Als ik zeg: “de huidige tijd is van een diepe slaap doortrokken”, dan heb ik twee mogelijkheden. Ofwel mijn uitspraak behoort tot de slaperige tijd, waarmee ze het risico loopt zelf slaperig en daarmee onwaar te zijn. Ofwel mijn uitspraak behoort niet tot de slaperige tijd, wat de uitspraak daarover ondermijnt. Klaarblijkelijk is de tijd niet zo slaperig, want deze uitspraak erover staat er buiten.
‘Hier ligt dan ook de grond om aan te sluiten bij het denken van Heidegger. Hij pretendeert een methode van denken te hebben gevonden die kan nadenken bij de techniek zonder ermee samen te vallen en zonder een alternatief of uitweg te zoeken. Het zijn de Leidse filosofen van Dijk en Oudemans geweest, die dit methodische karakter van het denken van Heidegger hebben opgenomen en tot zwaartepunt van het hedendaagse filosofisch nadenken hebben verklaard. Dat wordt dan wel eens gekscherend de Leidse Heideggerschool genoemd.’
Rondom de vloedlijn is de titel van het proefschrift. Waarom? Vanwege de ambiguïteit die het uitdrukt?
‘Het vervelende van een methodisch denken is dat het ook direct voor dit interview opgaat. Ik bemerk bij mijzelf de tendens om verhaaltjes op te hangen. Daar kan de filosofie natuurlijk niet in bestaan. Ik zal toch iets proberen te zeggen.
‘Uw vraag is welke ambiguïteit het woord ‘vloedlijn’ uitdrukt. Een antwoord op die vraag stelt die ambiguïteit voor, dat wil zeggen dat ze present wordt gesteld voor de lezer. Daarmee is de ambiguïteit zelf bij voorbaat al vernietigd en opgeheven. Wat is dat voor tendens in al onze vraag- en probleemstellingen, dat ze erop zijn aangelegd de zaken te verhelderen en beschikbaar te stellen? In die zucht tot presentie – en dat is wat techniek is - onttrekt zich de ambiguïteit, zo zou je kunnen zeggen.
‘Precies die verhouding tussen presentie en onttrekking speelt bij een vloedlijn. Een vloedlijn markeert niet de hoogste lijn van het water op het strand. In de vloedlijn onttrekt de vloed zich door achterlating van een lijn van schelpen en strandresten. Aan de vloedlijn kun je het afscheid van de vloed bemerken, zonder dat je daarover uitspraken kunt doen. Vandaar dat je alleen kunt verkeren in de nabijheid, rondom de vloedlijn. Daarmee is de aard van het methodische denken bij de techniek aangeduid.’
In uw proefschrift noemt u het werk van Jünger ‘dichten’? Zijn werk bestaat toch niet uit gedichten?
‘Jünger noemt zijn eigen manier van spreken Dichtung in zijn hoofdwerk Der Arbeiter. Ik benadruk dit omdat in zijn spreken een ambiguïteit schuilgaat. Heidegger zegt dat Jünger van voor tot achter schatplichtig is aan de metafysica van de wil tot macht bij Nietzsche.
‘Hoewel hij gelijk heeft in zijn plaatsbepaling van Jünger, ziet hij daarmee de andere zijde van Der Arbeiter over het hoofd, namelijk het dichterlijke van de gestalte van de arbeider. Waarom zou dit dichten niet thuishoren in het voor- en daarmee presentstellen?
‘Jünger zegt bijvoorbeeld dat de gestalte van de arbeider zoals die in het boek naar voren komt, niet is en ook niet van deze wereld is. Daarmee wordt duidelijk dat Jünger in Der Arbeiter de gestalte niet voorstelt. Hoe spreekt Jünger dan wel? Op een gegeven moment zegt Jünger dat “de heerschappij van de gestalte in wezen al is gerealiseerd maar nog uit haar anonimiteit te voorschijn moet worden gehaald”.
‘Daarmee wordt duidelijk waar het in Der Arbeiter om draait, namelijk het dichten als naamgeving. Dat is een mogelijke weg van de kunst in ons technisch tijdperk.’
U zegt dat het dichten en denken van Jünger en Heidegger in het teken van een overgang van de menselijke bestaanswijze bestaat. Waarin bestaat die overgang? En zag Heidegger die niet op een gegeven moment in het nationaal-socialisme?
‘Heidegger zegt dat wij de vanzelfsprekende bepaling van de mens als het denkende subject moeten verlaten, willen wij oog krijgen voor ‘onze verhouding tot het wedervarende’, de betrekking die altijd al bij voorbaat onze omgang met de dingen structureert. Voor het subject is elke bepaling subjectief of objectief, terwijl hij geen oog heeft voor de subject-objectverhouding die zijn bestaanswijze bij voorbaat altijd al heeft getekend.
‘Deze omwenteling van de menselijke bestaanswijze is niet zondermeer door te voeren. Ze is niet een beslissing van de mens als het denkende subject, maar vergt volgens Heidegger een ‘Anspruch’ (=appel, TB) die door het denken alleen kan worden voorbereid.’
In de jaren dertig dacht hij dat het moment van de omwenteling aangebroken was. Nadat hij rond 1938 inzag dat de nationaal-socialistische revolutie van Hitler niets te maken had met de door hemzelf beoogde omwenteling, verschoof hij haar naar een übernächste Generation. In dat opzicht is ook mijn eigen denken in het proefschrift voorbereidend van aard.’
Gaat u ervan uit dat in deze ‘tijd van onbehagen’ een absoluut nihilisme heerst? Probeert u op deze toestand een antwoord te formuleren?
‘U wijst met deze zinsnede op de titel van het boek van Ad Verbrugge. Wat hij cultuurverlies noemt en de heerschappij van het consumentisme, wijst op de ervaring van het nihilisme als onze ‘Normalzustand’. Ik deel zijn intuïtie van de ‘onwaarheid’ van de mens als consument van harte. Voor mij is evenwel de vraag waar in de wereld je bevestiging voor deze intuïtie kunt vinden. Ik ervaar geen tijd van onbehagen, want het nihilisme reikt zo ver dat het de cultuurkritiek evoceert en ook de oplossing voor elk onbehagen aanreikt. Voor mij speelt hier primair het methodische vraagstuk hoe ik kan nadenken bij het nihilisme.
‘Ik mag dat misschien illustreren aan de hand van het boek van Verbrugge. Hij wijst op onze wereld van de consumentistische behoeftebevrediging en zegt tezelfdertijd dat ‘in de mens de behoefte leeft aan een ‘zin’ die groter is dan hijzelf. Mijn vraag is dan of deze behoefte aan zin nu weer onderdeel uitmaakt van de behoeftebevrediging? ‘Is die gemeenschapszin als gedeelde dimensie er, of is het een bevredigde consumentistische behoefte? Volgens mij zou het verschil tussen zijn authentieke vraagstelling en de consumentistische behoeftebevrediging daarin moeten bestaan, dat hij uitziet naar een zin die als zodanig verre is, om zo de nabijheid ervan te ontberen. ‘Dit ontberen kent de consumentistische behoeftebevrediging niet. Die blijft nimmer onbevredigd achter en slokt alles op in een alomtegenwoordige beschikbaarheid.
Ik hoop dat hiermee duidelijk wordt waar voor mij het zwaartepunt ligt. Het is jammer dat die titel op de achterflap van mijn boek is gekomen, want ik wil mijn eigen denken helemaal niet in oppositie met Verbrugge gedefinieerd zien.’
Dit boek is een must voor kunstenaars, filosofen en anderen die vragen wat de mens vermag in ons machinale tijdperk.’ Dat staat te lezen in de perstekst die uw promotie begeleidt. Waarom is het boek een must?
‘Ik verwees net naar het nihilisme als onze ‘Normalzustand’. Ik geloof niet dat de vraag daarnaar minder speelt in de kunsten dan in de filosofie. Mijn boek onderscheidt zich doordat het geen alternatieven zoekt maar een nuchtere confrontatie zoekt met de techniek. Het laat zien wat filosofie en kunst vermag in ons technisch tijdperk en schetst daartoe een weg van het denken en een weg van de kunst en confronteert die met elkaar.’
In uw nawoord schrijft u dat de Amerikaanse bombardementen op Irak en de Al-Qaida aanslagen secundair zijn ten opzichte van de vraag naar het filosofische principiële, de semantische grond ervan. Is het niet schizofreen om dat te moeten zeggen, terwijl u tegelijkertijd in uzelf de neiging bespeurt om zich af te vragen of dergelijke aanslagen niet het teken zijn van ‘een breuk tussen de Westerse beschaving en een nieuw barbarendom’?
‘Een schizofrenie duidt op een gespletenheid, waarbij de remedie gevonden wordt in de opheffing ervan. Daardoor ontstaat eenheid en helderheid. In de filosofie gaat het erom empirisch te blijven, dat wil zeggen dat ik bij die gespletenheid zelf blijf zonder hem op te willen heffen. Nu is de vraag of ik niet evengoed de gespletenheid ophef door de aanslagen van Al-Qaida tot een secundair verschijnsel te reduceren. Voor mij is volstrekt duidelijk dat de heftigheid van de aanslagen van 11 september slechts aangeven hoezeer de islamitische samenleving wordt bedreigd – uiteindelijk wil ook elke Afghaan een televisie en een koelkast. Maar afgezien van dit voorbeeld heeft u wel een punt. Het is de vraag of het filosofisch principiële noodzakelijkerwijze de reductie van de ‘zijnden’ tot secundaire verschijnselen impliceert. Ik herinner mij dat Heidegger ergens spreekt van een aanval op het wezen van de mens door de middelen van de techniek, dat wil zeggen technische instrumenten. Daar zouden we ons verder op moeten bezinnen.’
Van dit stuk verscheen een kortere versie in de papieren versie van Mare 29.
Vincent Blok
Rondom de vloedlijn, Uitgeverij Aspekt. € 22,95
Te bestellen via www.vincentblok.nl
Promotie was 20 april
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dimanche, 08 novembre 2009
Bodo Uhse - im Spannungsfeld von Nationalem Sozialismus und sozialistischem Patriotismus
Bodo Uhse – im Spannungsfeld von Nationalem Sozialismus und sozialistischem Patriotismus
Verfasser: Richard Schapke, Juni 2002
"Eine Eigenschaft vor allem ist nötig, Mut, Mut zur Eroberung wie zum Verzicht, Mut zur Erkenntnis, sei sie auch noch so schmerzlich, peinigend und bitter. Du musst es wagen, mit dem Herzen zu denken und mit dem Kopf zu fühlen. Von den Deutschen haben das nur wenige gekonnt."
- Bodo Uhse
Gegenstand dieses Aufsatzes ist die Person des Schriftstellers und Publizisten Bodo Uhse. Im Verlaufe seiner höchst bemerkenswerten Vita gelang es Uhse, seinen Lebensweg vom Teilnehmer des Kapp-Putsches bis hin zu einem der führenden Kulturpolitiker der Deutschen Demokratischen Republik zu gehen. Unsere Darstellung beruht auf Bodo Uhses romanartiger Autobiographie "Söldner und Soldat", auf Klaus Walthers dem Protagonisten gewidmeten Bändchen der DDR-Reihe "Schriftsteller der Gegenwart", zeitgenössischen Quellen aus Weimarer Zeiten und nicht zuletzt diversen Publikationen zum Nationalbolschewismus der 20er und 30er Jahre. Die kursiv gesetzten Zitate stammen, sofern nicht anders angegeben, aus der Feder Bodo Uhses
1. Jugendzeit im Bund Oberland
Bodo Uhse wurde am 12. März 1904 als Sohn eines preußischen Berufsoffiziers in der Garnisonstadt Rastatt geboren. Infolge der zahlreichen Versetzungen des Vaters verlief seine Kindheit in relativ unregelmäßigen Bahnen, wozu auch die Trennung der Eltern ihr Scherflein beigetragen haben mag. Nach jahrelangem Unterricht durch Privatlehrer kam Uhse erst 1914 in den fragwürdigen Genuss eines regulären Schulbesuches, und zwar in Braunschweig. Hier lebte er bei seinen Großeltern, und hier schloss er sich wie so viele seiner Altersgenossen der Wandervogelbewegung an, um der familiären Enge zu entkommen.
Die gehegten Hoffnungen auf eine Offizierslaufbahn nach des Vaters Vorbild – genährt durch den Ersten Weltkrieg und die Vision eines klassenübergreifenden nationalen Aufbruches hin zu besseren Zeiten – fanden durch den Zusammenbruch des morschen Kaiserreiches im November 1918 ein jähes Ende. Frustriert musste Uhse zu seinem Vater nach Berlin übersiedeln, wo er fortan die Oberrealschule besuchte. In diese Zeit fielen die ersten Kontakte zu paramilitärischen Verbänden der radikalen Rechten (für einen preußischen Offizierssohn und Wandervogel wahrlich nichts Ungewöhnliches), und im März 1920 beteiligte er sich, kaum 16 Jahre alt, als Zeitfreiwilliger und Meldegänger am Kapp-Putsch gegen die ungeliebte Republik.
Im Frühjahr 1921 brach Uhse mit der ungeliebten Familie und verließ Berlin, um fortan seinen eigenen Weg zu gehen. Der talentierte junge Mann wurde auf Vermittlung des rechtsradikalen Agitators Karl von Gebsattel als Volontär in die Redaktion des "Bamberger Tageblattes" aufgenommen. Das Blatt war trotz einer Auflage von 20.000 Exemplaren stark von den Wünschen des Tabakindustriellen Baron Michel-Raulinos abhängig, was der journalistischen Betätigung nicht nur Uhses so manche Schranken setzte. Bereits jetzt zeichnete er sich durch einen unruhigen Geist aus, was nicht zuletzt durch einen spontanen Redeauftritt auf einer Versammlung des Deutschvölkischen Schutz- und Trutzbundes dokumentiert wurde. "Wo sollte die nationale Sache hinkommen, wenn sie ängstlich vor Demokraten und Katholiken auswich?"
Stammtischreden und Vereinsmeierei der Deutschnationalen, Alldeutschen und Völkischen lagen dem aktivistischen Uhse nicht, also trat er Ende 1921 dem paramilitärischen Bund Oberland bei. "Wer auf diese Fahne schwört, hat nichts mehr, was ihm selbst gehört." Die Flucht aus der Vereinsamung in die entschlossene Gemeinschaft stellte hierbei neben politischen Aspekten einen wichtigen Faktor dar. Der Bund Oberland war aus dem gleichnamigen Freikorps hervorgegangen, das zwar einerseits gegen die Münchener Räterepublik und gegen die polnischen Insurgenten in Oberschlesien kämpfte, aber andererseits im Gegensatz zum Gros der anderen rechtsextremen Landsknechte den Einsatz gegen streikende Arbeiter verweigerte. Nach der Umwandlung in den Bund betrieb Oberland mit Hilfe der Reichswehr weiterhin intensive paramilitärische Ausbildung.
Bei Oberland lernte Uhse Persönlichkeiten der völkisch-nationalsozialistischen Szenerie bis hin zum Radauantisemiten Julius Streicher kennen. Einen gewissen Eindruck machte Gottfried Feders Theorie von der Brechung der Zinsknechtschaft – schon früh entwickelte sich ein diffuser antikapitalistischer Affekt. Kommandeur der Bamberger Oberländer war der "rote Leutnant" Audax, der während der Revolution als einziger Offizier auf Seiten der Sozialisten stand. Erscheinungen wie Audax waren bei Oberland keine Seltenheit: Auch der ehemalige Kommandeur Beppo Römer tat sich schon früh durch ausgesprochen "nationalbolschewistische" Tendenzen hervor. Auf der anderen Seite nahm Uhse selbstredend an Aufmärschen und Zusammenstössen mit Kommunisten und Sozialdemokraten teil, wobei er einmal erhebliche Verletzungen davontrug. "Viele hundert gebückte Gestalten sah ich vor mir, die suchten etwas. Ich hörte meine Stimme sie fragen: 'Was?' – 'Deutschland', antworteten sie, und ich empfand den Zwang, ihnen zu sagen, wo sie es fänden. Aber es war so, dass ich es selbst nicht wusste."
Im Laufe der Zeit kamen Rivalitäten mit den von den militärisch ungleich professionelleren Oberländern belächelten Nationalsozialisten auf, die unsinnige antisemitische Propaganda des Hitler-Intimus Hermann Esser führte im Frühjahr 1923 sogar zu einer Saalschlacht zwischen Oberland und der SA. Esser lehnte den Kampf gegen die französische Besatzungsmacht an der Ruhr strikt ab und erhob die Vernichtung des "jüdischen Weltparasiten" zum alleinseligmachenden Ausweg. Oberland nahm bekanntermaßen mit zahlreichen Aktivisten am Ruhrkampf teil und reagierte entsprechend gereizt auf die nationalsozialistischen Wahnvorstellungen. Dennoch verbündeten sich die Rivalen bald darauf im Kampfbund gegen die republikanische Ordnung.
Der einsetzende Massenzulauf zu Oberland warf erhebliche Probleme auf und sorgte für Unbehagen: "Der alte Ton persönlicher Kameradschaft verschwand aus dem Bunde...Der Bund konnte sie nicht mehr seiner Gemeinschaft voll einordnen. Die wohlausgewogene Mischung von Romantik und Sachlichkeit, von rebellischem Wandervogeltum und politischer Reaktion, von Aufrührertum und Disziplin wurde getrübt. Die Leute im Bund waren erst einmal Studenten oder Rechtsanwälte, Kaufleute oder Angestellte und erst lange nachher das, was wir ganz und gar sein wollten. Der selbstverständliche Grundsatz, dass, wer dem Bunde angehöre, nur ihm verpflichtet sein dürfe, wurde nicht mehr respektiert." Im Dienst wurden die mittleren und höheren Angestellten bevorzugt, die Korpsstudenten führten ohnehin ein striktes Eigenleben.
Im November 1923 wurde Bamberg im Zusammenhang mit dem Hitler-Ludendorff-Putsch in München von tagelangen Krawallen erschüttert, an denen auch Bodo Uhse und seine Oberland-Kameraden teilnahmen. Nachdem die SA sich zuvor widerstandslos entwaffnen ließ, wurden die Oberländer von ihrem neuen Kommandeur Apfelstedt kurzerhand nach Hause geschickt. Die Wut entlud sich in dreitägigen Straßenschlachten mit der Polizei und wüsten Radauszenen. Im Anschluss lieferten sich Bambergs Oberländer einen regelrechten Privatkrieg mit der örtlichen SA, namentlich der provozierend "Adolf" getaufte Mischlingshund der Uhse-Kumpanen sorgte stets für Zündstoff.
Der Bund Oberland erstickte langsam im provinziellen Treiben der einzelnen Gruppen, das Gros der alten Mitglieder verlief sich. Uhse und seine Freunde suchten nach tieferen Inhalten. Man "spottete über die, die mit weltanschaulichen Belichtungstabellen durchs Leben zogen und für jede Situation dort die richtige Einstellung gewannen. Für diese Leute gab es nichts Neues mehr. Das Überraschungsmoment war für sie ausgeschaltet, sie hatten für alles eine Formel, von allem eine fertige Meinung. Es war gewiss bequem, sich auf solche Weise mit dem Leben auseinanderzusetzen, denn es gab keine Auseinandersetzung mehr. An Stationen, die im Weltanschauungsfahrplan nicht vermerkt waren, fuhr man vorüber, ohne aus dem Fenster zu sehen. Es war angenehm und bequem, mit breitem Arsch auf seinen Überzeugungen zu sitzen und nicht das Leben vor sich zu haben, sondern seine Weltanschauung, nicht die Dinge, sondern seine Meinung von den Dingen. Weltanschauung verpflichtete nicht, sondern pflichtete bei."
2. Anschluss an die nationalsozialistische Linke
Wie das "Bamberger Tageblatt", so fungierte auch Oberland letztlich nur als Durchlauferhitzer für Bodo Uhses weitere Radikalisierung. Am 1. Mai 1927 erschien im Bundesorgan "Das Dritte Reich" erstmals ein Aufsatz aus der Feder Uhses, der eine deutliche Hinwendung zu den Positionen des linken Flügels der NSDAP und des Neuen Nationalismus eines Ernst Jünger erkennen ließ. Im gleichen Monat erfolgte auch der Eintritt in die Redaktion des Ingolstädter "Donauboten", mithin eine der ersten nationalsozialistischen Zeitungen überhaupt. Nach dem Parteieintritt im Spätsommer 1927 reihte Uhse sich in die Phalanx der NS-Linken um die Gebrüder Strasser ein, die bemüht waren, der kleinbürgerlich-reaktionären Fraktion um Hitler ein national-sozialistisches Gegengewicht entgegenzustellen. Gemeinsam wollten die NS-Linken der Partei einen sozialrevolutionären Geist einhauchen, der "an Stelle des Kehrrichthaufens aus Bierkellerromantik, Kleinbürgersehnsucht und einer Winzigkeit echten, aber irrenden Gefühls treten, den die fünfundzwanzig Punkte des offiziellen Parteiprogramms darstellten".
Aufschlussreich über den politischen Standort Uhses ist der im Dezember 1927 im "Dritten Reich" erschienene Aufsatz "Die neue Front. Saboteure an der Arbeit": "Brennend geworden in jener Stunde, da das Gewaltdiktat der kapitalistischen Siegermächte nicht das alte Deutschland, sondern das arbeitende, deutsche Volk mit vernichtendem Schlage traf. Damals verriet die Sozialdemokratie die sozialistische deutsche Revolution und streckte die Waffen. Der deutsche Arbeiter wurde zum Kuli. Er bekam die durch die Machtdiktate (die Reparationen des Versailler Diktats, d. Verf.) veranlasste Sozialreaktion zu spüren und empörte sich dagegen in blutigen Aufständen. Damit wurde zum zweiten Male die Frage der Verbundenheit von Arbeitern und Frontkämpfern brennend. Wenn die Frontkämpfer - statt vom Unternehmertum sich zur Niederwerfung der sozialrevolutionären Bewegung ausnutzen zu lassen - in den revolutionierenden Arbeitern ihre natürlichen Bundesgenossen erkannt hätten, so wäre damals schon die nationalrevolutionäre Front gegen Versailles entstanden. Die besitzenden Kreise wehrten sich gegen den neuen Nationalismus, der sich mit der sozialistischen Revolution um der nationalen Freiheit willen verbünden wollte, nicht aus taktischen Gründen sondern grundsätzlich um durch die sozialistische Organisation der Nation die Widerstandsfähigkeit auch für die Zukunft aufs Höchste zu steigern. So musste das Unternehmertum - nach einem halben Versuch im Ruhrkampfe - sich der Herrschaft der Finanzbourgeoisie ergeben und den Gedanken des nationalen Widerstandes mit dem Einschwenken in die Locarnofront (Sicherheitspakt mit den Westmächten statt Bündnis mit der antiwestlichen Sowjetunion, d. Verf.) verraten. Nachdem die Sozialdemokratie ihre Büttelrolle erfüllt hat, hat das deutsche Unternehmertum die Rolle des Fronvogtes der Finanzbourgeoisie übernommen. Die bittere aber eindeutige Lehre ist, dass man als Nationalist Sozialist sein muss, denn der Sozialismus ist unser Schicksal."
Als Protegé der vor allem in Norddeutschland einflussreichen Strasser-Brüder machte Uhse Karriere und übernahm noch vor Jahresende die Chefredaktion des "Donauboten". In dieser Funktion arbeitete er eng mit Otto Strasser und Herbert Blank zusammen und wurde praktisch das dritte Sprachrohr der NS-Linken. In Süddeutschland dominierte jedoch der rechte Parteiflügel, und als Uhse im Frühjahr 1928 öffentlich gegen die Kandidatur des reaktionären Generals von Epp auf der NS-Liste protestierte, warf man ihn aus der Redaktion hinaus. Seiner Agitation für einen nationalen Sozialismus tat das keinerlei Abbruch. Im August 1928 veröffentlichte er wiederum im "Dritten Reich" den Aufsatz "Der proletarische Deutsche", der deutliche Einflüsse der SPD-Renegaten August Winnig und Ernst Niekisch verriet. Diese sahen in der Arbeiterschaft die zur Machtausübung im kommenden neuen Staat bestimmte Klasse, propagierten die Mobilisierung des bolschewistischen Chaos gegen den Westen und standen damit in deutlichem Gegensatz zum herkömmlichen Nationalismus oder zur nationalsozialistischen Volksgemeinschaft:
"Außerdem aber verrät die Ansicht, dass das sachliche und persönliche Bekenntnis zum deutschen Arbeitertum ein Verrat am ‚Ideale‘ der Volksgemeinschaft sei, eine solche Unkenntnis zum deutschen Proletariat, das - wie man doch wird zugeben müssen - ein sehr beachtenswerter Teil der deutschen Volksgemeinschaft ist, dass es besser ist für die Träger diese Ansicht, sie geben die Beschäftigung mit der Politik auf (...) Wer um die deutsche Freiheit sinnt, der kann am deutschen Proletarier nicht mit blinden Augen vorbeigehen. Er ist im Gegenteil gezwungen, seine Augen auf ihn zu richten und wenn sein Freiheitswille ehrlich ist, d.h. wenn es ihm gleichgültig und unbeachtenswert ist, unter welchen Formen und Fahnen die Freiheit gewonnen werden soll, wenn er also alle Vorurteile und Gedankenhemmnisse überkommener Begriffe wegwirft, dann wird er den deutschen Proletarier sehen, achten und lieben lernen. Zunächst ist es nötig, sich einmal des durchaus bürgerlichen Begriffes der ‚Klasse‘ zu entledigen. (...) Nicht Bürger, sondern wahrhaft marxistischer Bourgeois ist, wer den Unterschied zwischen den Begriffen der Klasse und der Schicht nicht zu sehen vermag. Der materialistische Begriff der Klasse erfasst ja nur einen Teil, nur eine Seite des deutschen Arbeitertums, während die Schicht das deutsche Arbeitertum auch in seinen immateriellen Kräften umfasst. Nicht dialektische Schablone, sondern lebendige Kraft, das ist der Unterschied zwischen Klasse und Schicht. Wer aber diesen Unterschied kennt - und der Weg zu dieser Erkenntnis ist offen für alle, die guten Willens sind - der wird nicht ‚hinabsinken in die Masse‘, sondern er wird die lebendige Kraft des deutschen Arbeitertums aufsuchen."
3. Die "Schleswig-Holsteinische Tageszeitung"
Im September 1928 empfahl Gregor Strasser seinen Protegé als politischen Redakteur für die geplante "Schleswig-Holsteinische Tageszeitung" mit Sitz in Itzehoe. An der Besprechung im preußischen Landtag nahmen u.a. Parteiprominente wie Erich Koch, Karl Kaufmann, Robert Ley und Wilhelm Kube teil. Strassers Vertrauen in diese Truppe wurde von Uhse mitnichten geteilt: "Selbstlose Vorkämpfer eines deutschen Sozialismus waren diese erfahrenen und gewiegten Draufgänger wohl nicht." Dennoch ergriff er die neue Gelegenheit am Schopfe, war ihm die sich steigernde Unruhe im Deutschland der späten 20er Jahre doch durchaus bewusst: "Wenn sie scharf hinhören, werden sie das Ticken der Würmer im Gebälk vernehmen. Sehen sie nachts über das Land, am Horizont stehen Flammen. Unruhe und Ungewissheit liegen in der schwülen Luft." Die SHTZ sollte die erste norddeutsche Tageszeitung der NSDAP werden und die bisher kümmerliche Propagandaarbeit in der Nordmark vorantreiben. Das Terrain war günstig: Bei den Reichstagswahlen von 1928 erzielte die NSDAP in Schleswig-Holstein überdurchschnittliche Ergebnisse, und Strasser witterte hier Möglichkeiten, seine Basis zu verbreitern.
Im Oktober attackierte Uhse in den strasseristischen "NS-Briefen" noch einmal den parteioffiziellen Antimarxismus, bevor er nach Itzehoe übersiedelte. Die Itzehoer Parteibasis bestand zumeist aus Landwirten und Handwerkern und forderte, die SHTZ dürfe nicht nur ein Parteiblatt, sondern auch und gerade ein Blatt für die unter der Agrarkrise mit Preisverfall, Verschuldung und steigenden Steuern leidenden Bauern sein. "Ein Blatt also gegen die Regierung, ein Blatt des Umsturzes, ein Blatt der Revolution." Zu dieser Zeit entwickelte sich gerade die militante Landvolkbewegung, die sich durch Widerstandsaktionen gegen Gerichtsvollzieher und Polizeibeamte hervortat. Uhse nahm prompt an einer Protestkundgebung des Landvolks teil und zeigte sich beeindruckt: "Diese Bauernhaufen hatten eine rücksichtslose Entschlossenheit in ihren Gesichtern gezeigt. Ihre Methoden waren überraschend in der Unmittelbarkeit, mit der sie sich gegen den Staat wandten. Es gab kein spießbürgerliches Für und Wider, keine biedere Vereinsmeierei, keine Satzungen und keine Statuten, Abzeichen und Fahnen, wie sie sonst bei allem, was in Deutschland geschah, das Wichtigste und Vordringlichste schienen. Hier war wirklich Bewegung, gefährdet allerdings durch ihre fehlende Reglementierung, durch die anarchischen Formen ihres Ablaufes und durch die drängende Ungeduld. Man musste einen Weg finden, mit der unbändig rebellierenden Kraft der Bauern zusammenzuarbeiten."
Am 3. Januar 1929 erschien die erste reguläre Ausgabe der SHTZ, wenn auch anfangs nur als Wochenblatt. Uhse legte sich prompt mit Gauleiter Hinrich Lohse an, als er den Abdruck eines gegen das Landvolk gerichteten Artikels verweigerte, und drohte sogar mit seinem Rücktritt als Chefredakteur. Er traf auch mit dem Landvolkführer Claus Heim zusammen, der die bedingungslose Unterordnung der NSDAP unter die schwarze Fahne der Bauernnot und der Rebellion verlangte. Der NS-Agitator erkannte, dass die Abneigung der Parteibürokratie gegen das Landvolk und gegen Heim vor allem auf die Angst des Funktionärs vor der Persönlichkeit zurückzuführen war. Obwohl er sich eher zu den Landvolkaktivisten wie Herbert Volck, Walther Muthmann oder Bruno von Salomon hingezogen fühlte, übernahm er bald die Führung der NSDAP-Ortsgruppe Itzehoe. Die bislang vor sich hindümpelnde Parteiarbeit belebte sich unter Uhses Leitung sprunghaft. In den alle 14 Tage abgehaltenen Versammlungen agitierte er unter den Bauern und den Absolventen paramilitärischer Kurse und wetterte gegen den platten Antisemitismus der reaktionären Parteigeneralstäbler in München. "Die Revolution von 1918 hat nur den alten Bau vernichtet. Wir sitzen ohne Dach über dem Kopf im Wetter. (...) Das deutsche Volk ist ausgebeutet und unterdrückt. Im deutschen Volk aber stehen auf der untersten Stufe Arbeiter und Bauern. Auf sie werden alle Lasten abgewälzt. Ihre Not ist die Not des ganzen Volkes, ihnen gebührt die Führung." Zu Uhses Entsetzen erkannte Hitler jedoch im Interview mit einer amerikanischen Zeitung und auch im "Völkischen Beobachter" die Auslandsverpflichtungen Deutschlands und damit die Versailler Kriegstribute an.
Die Antwort bestand in einem prononcierten Radikalismus, der auch vor Saalschlachten mit anderen rechtsgerichteten Organisationen nicht haltmachte. In Husum provozierte Uhse eine aufsehenerregende Saalschlacht auf einer Versammlung des Jungdeutschen Ordens: "Ihr werft uns Terror vor? Wenn wir nur so terrorisieren könnten, wie wir wollen! Aber der Tag kommt. Nicht mit der klügelnden Vernunft – mit der vom eisernen Willen geführten Faust werden Revolutionen gemacht. Wir glauben an die Gewalt, wir lieben die Gewalt und wir üben Gewalt." Die SA ließ sich das nicht zweimal sagen, geriet völlig außer Rand und Band und schlug alles kurz und klein. Hitlers Privatkanzlei schickte prompt einen Beschwerdebrief an Lohse und verwies auf das Legalitätsprinzip der NSDAP.
Geradezu traumatisch wirkte sich kurz danach ein schwerer Zusammenstoß mit den Kommunisten in Wöhrden bei Heide aus, bei dem die Nationalsozialisten Otto Streibel und Hermann Schmidt sowie der Kommunist Johannes Stürzebecher den Tod fanden. "Ich konnte diesen Toten nicht hassen und nicht die, die seine Gefährten gewesen waren in dieser blutigen Nacht...Dieser Stürzebecher da hatte ehrlich für seine Sache gekämpft und für die seiner Kameraden. (...) "Ich erschrak, da ich fühlte, wie ich die beiden Toten vor mir verleugnete und mein Herz sich vor dem dritten beugte, vor der anklagenden und hassenden Grimasse des Kommunisten, der dem Namen des alten Seeräubers und Rebellen, den er trug, mit seinem Tode Ehre gemacht hatte. Leben und Tod waren bei ihm eine gerade Linie und sinnvoll einfach durch ihr Dasein. Er war arm und unterdrückt und ausgebeutet, daran hatte ich nicht zu zweifeln, und er hatte – wer wollte das in Frage stellen? – gegen das ihm und Tausenden der Seinen aufgezwungene Geschick gekämpft...Die schmerzverzogenen Züge formten für mich das Gesicht seiner Kameraden, seiner Klasse, an deren Kraft ich doch glaubte. Ich hatte nicht kämpfen wollen gegen diese Klasse, das war doch der simple Sinn meines Handelns gewesen, darum auch war ich National-Sozialist geworden."
Nach dem Wöhrdener Zwischenfall befürchtete Gauleiter Lohse anfänglich ein Parteiverbot, fing sich jedoch rasch wieder in schlachtete den Tod der zwei SA-Männer propagandistisch aus. Zur Trauerfeier am 13. März 1929 stattete auch Hitler Schleswig-Holstein seinen ersten Besuch aus. Im Anschluss an die Beisetzung tauchte er in der Redaktion der SHTZ auf und verlieh seinem Unmut über Uhses radikalen Kurs Ausdruck. Zwar lese er das Blatt täglich, aber die Umstände würden zur Zurückhaltung mahnen. Der Kritisierte konterte, der Radikalismus des Landvolkes zwinge ihn zu einer anderen Sprache. Bald darauf wurde die SHTZ für 4 Wochen verboten, und im Zwangsurlaub freundete Uhse sich mit der Redaktionsmannschaft der Konkurrenzzeitung "Das Landvolk" um Bruno von Salomon an.
Am 23. Mai 1929 eröffnete die Landvolkbewegung ihren Terrorfeldzug gegen die Republik mit einem Bombenanschlag auf das Itzehoer Landratsamt. In weiten Teilen Schleswig-Holsteins übernahmen revolutionäre Bauernkomitees die faktische Kontrolle und errichteten eine Parallelverwaltung. Für Wirbel sorgte die Beteiligung des Uhse-Kumpans Hein Hansen am Sturm auf ein Gefängnis, wo ein in Beugehaft befindlicher Bauer befreit werden sollte. Die Systempresse konstruierte einen Zusammenhang zwischen der NSDAP und den Terroristen, und um ein etwaiges Parteiverbot abzuwenden, bot Hitler eine Belohnung von 10.000 Reichsmark für denjenigen, der die Urheber der Anschläge namhaft macht. Damit machte die NS-Parteiführung sich bei den Landvolkextremisten und anderen Nationalrevolutionären geradezu zum Gespött. Es bildete sich eine Art informeller Zirkel aus Uhse, den beiden Landvolkterroristen John Johnson und Bruno von Salomon sowie dem Kommunisten Kreuding. Lohse ermahnte Uhse nachdrücklich, die Finger von den Terroristen zu lassen.
4. Bruch mit Hitler
Wasser auf die Mühlen der NS-Linken war der am 7. Juni 1929 von der Pariser Sachverständigenkonferenz verabschiedete Young-Plan zur Regelung der Reparationsfrage. Das Reich sollte bis 1988 116 Milliarden Reichsmark Reparationen in mit fortschreitender wirtschaftlicher Erholung ansteigenden Raten zahlen.
"Die Staatsmänner, beunruhigt von den drohend sich erhebenden ersten Wellen der Krisenspringflut, übergaben die Sache, von der sie bisher den Völkern erzählt hatten, es handele sich um die heiligsten Güter der Nationen, um das eben, wofür Millionen Soldaten einen harten Tod gestorben waren, den Geschäftsleuten, den Händlern, den Industriellen und Bankiers. Die traten nun bescheiden als Sachverständige aus den Kulissen heraus, hinter denen sie bisher die Regie geführt hatten, und unternahmen es, auf einer Konferenz in Paris...mit dem Geschick der Völker zu spielen. Es war das erste Mal, dass sich Vertreter Deutschlands in ihrer eigenen Sache als gleichberechtigt an den Tisch setzen durften; es war kein Zufall, dass dies in einem Kreis geschah, von dem man sagen könnte, dass hier Kapitalisten unter sich seien." Hintergrund des Youngplans waren die horrenden Kriegsschulden Großbritanniens und Frankreichs bei den USA, die durch deutsche Reparationen beglichen werden sollten. "Die Bourgeoisie dieser Länder fand es recht und billig, die Rückzahlung der Milliardensummen, die aus den Feuerschlünden der Kanonen mordbringend in die Luft gespien worden waren, auf die deutsche Bourgeoisie abzuwälzen, als 'Wiedergutmachung' eben. Der sachliche Ton der Pariser Verhandlungen der in diesen Dingen wahrhaft Sachverständigen war nicht zum letzten durch das Bewusstsein bedingt, dass die Bourgeoisie Deutschlands sich keineswegs an diesen Lasten übernehmen, sondern sie ihrerseits wieder auf die Massen des deutschen Volkes abwälzen werde. Von der Tüchtigkeit und Zuverlässigkeit des deutschen Volkes, von seinem Fleiß und seiner Arbeitskraft wussten nicht nur die ausländischen, sondern auch die deutschen Vertreter auf der Konferenz mit jener schäbigen Anerkennung zu sprechen, mit der etwa jemand das Geschick und den Fleiß seines Haustieres rühmend erwähnt. Die 'deutschen Kapitalisten' – der Ausdruck wirkt störend, denn der Kapitalismus zieht es vor, sich als Zivilisation, als Grundlage moderner Kultur, als Wahrer christlicher Güter, als Prinzip des wohlerworbenen Eigentums bezeichnen zu lassen..."
Das deutsche Kapital überwand die Deklassierung der ersten Nachkriegsjahre, indem es über den Rücken der Volksmasse stieg. Der Young-Plan stellte ein ausgezeichnetes Agitationsobjekt gegen die Weimarer Republik dar. Nicht die Alliierten hatten den Krieg gewonnen, sondern das internationale Finanzkapital. "Die deutschen Staatsmänner repräsentierten nicht den Willen des Volkes, sondern die Mächte der Ausbeutung. Die deutschen Kapitalisten hatten Frieden geschlossen mit den Kapitalisten der Feindstaaten. Der Widerstand gegen den Young-Plan musste dem Inhalt nach proletarisch und in seinen Formen revolutionär sein." Eine kalte Dusche für die revolutionären Hoffnungen war jedoch Hitlers Pakt mit DNVP und Stahlhelm zum Volksbegehren gegen den Young-Plan. "Wir hatten uns bisher mit Leidenschaft und Heftigkeit von diesen Gruppen distanziert. Wir hatten sie tagtäglich als Vertreter der Reaktion in der Presse und in Versammlungen angeprangert, und es war ein Hauptstück unserer Propaganda gewesen, dass wir ihnen den ehrlichen nationalen Willen ebenso abgesprochen hatten wie den Sozialdemokraten und Kommunisten den Willen zum Sozialismus. Nun brach Hitler mit dieser Linie unserer Politik und schlug nach rechts hin eine Brücke, auf der Bein brechen musste, wer mit der sozialen Lüge darüberschreiten wollte. Wir hatten bisher die abgetakelten Generale, die breitbeinigen Wirtschaftsführer mit ätzendem Spott übergossen und mussten nun Hitler in der Gesellschaft dieses gepflegten Pöbels sehen."
Die Redaktion der SHTZ reagierte mit Entsetzen und Empörung: "Hitler hat uns verkauft!...Mit denen, die wir täglich leidenschaftlich anklagten, denn sie schändeten mit ihrer Profitgier den Namen der Nation, mit den krebsfüßigen Rückwärtslern voll ekelhaften Standesdünkels hatte Hitler die jungen Armeen der Braunhemden verkoppelt. Er hatte in der entscheidenden Stunde, da der Kampf außerhalb der Gesetze dieses Staates geführt werden musste, seinen Weg in die friedlichen Gehege der Weimarer Demokratie gerichtet, hatte in Gemeinschaft durchschauter Scharfmacher, denen die Nation niemals mehr gewesen war als ein Deckmantel für ihre Geschäfte, an das Volk eine Frage gestellt, die nicht ehrlich gemeint, die ein Betrug war. In dem Augenblick, da Gefährliches zu tun notwendig schien, spielte Hitler ein sicheres Spiel. Er verband sich mit der Reaktion und dem unzufriedenen Kapital." Gegen diese Linie wollte Uhse Widerstand leisten, blitzte allerdings bei Lohse ab und auch bei Otto Strasser, der das Volksbegehren als seinen eigenen Erfolg feierte. Vergeblich warnte der NS-Linksausleger seinen bisherigen Mentor, dass so nur die Münchener Richtung gestärkt werden würde.
Am 16. Juni 1929 marschierten in Itzehoe 1000 Mann SA auf. Hauptredner Joseph Goebbels traf anschließend mit Bodo Uhse zusammen und notierte im Tagebuch: „Ein junger, sehr klarer Kopf. Er weiß, was er will. Dazu ein konsequenter Sozialist.“ Auf dem Nürnberger Parteitag kam es zu einem Zusammenstoss Uhses mit Rosenberg, der eine Zusammenarbeit mit den unterdrückten Kolonialvölkern aus rassischen Gründen strikt ablehnte. Der Antiimperialismus laufe lediglich hinter der Linie der KPD her. Gegenstand der Kritik wurde auch das Eintreten der Parteilinken für ein Bündnis mit der Sowjetunion gegen den kapitalistischen Westen. Der Parteitag verwarf zudem eine stärkere Orientierung hin zu gewerkschaftlichen Fragen und hin zur Arbeiterpropaganda.
Als die Polizei sich an die Zerschlagung der Landvolkbewegung machte, wurde auch die Redaktion der SHTZ am 12. September 1929 verhaftet. In der U-Haft in Altona hatte der NS-Journalist Zeit zum Nachdenken: "Gewiss, man konnte Nationalsozialist sein, die Masse umschmeicheln und verachten, den Krieg vergotten und die Legalität beschwören, für die Auslese sich begeistern und selber die Stufen der Hierarchie hinaufklettern, den Arbeiter achten und ihm schlechtere Löhne zahlen, nach Freiheit rufen und die Unterdrückung vorbereiten. Man konnte Faschist sein, ich war es nicht, das begriff ich jetzt. Und jenes faschistische Jakobinertum, das die Gewaltsamkeit gutmütig handhaben, die Freiheit rationell anwenden und die Revolution konservativ durchführen wollte, es war zum Kotzen." Die letzten Sätze bezogen sich auf Otto Strasser und seine Parteigänger, bei denen die meisten auf halbem Weg zum Sozialismus stehen blieben. Derweil vermuteten Goebbels und Lohse in Berlin, Strasser habe die Querverbindungen zwischen Landvolk und NS-Linker zustande gebracht, und der schleswig-holsteinische Gauleiter war seitdem alles andere als gut auf Bodo Uhse zu sprechen.
Nach seiner Entlassung aus der U-Haft kandidierte Uhse bei den preußischen Kommunalwahlen und wurde im November 1929 in den Itzehoer Stadtrat gewählt. Hier konkurrierte die NS-Fraktion mit der KPD, weil Uhse sich verstärkt um die Interessen der Arbeitslosen und der Arbeiter bemühte. Er freundete sich mit dem Kommunisten Waldemar Vogeley an. Dieser sagt ihm auf den Kopf zu, er werde nicht lange bei den Nazis bleiben, erkannte aber Uhses aufrichtiges Wollen an. In der Tat zeigte der neu gewählte Stadtrat sich beunruhigt über gleichgültige Haltung der Parteiführung gegenüber den Bauern und der Not des Proletariats sowie über Hitlers Legalitätskurs. Wohl nicht zuletzt unter Vogeleys Einfluss wurde Uhse zum Besucher in der örtlichen Buchstelle der KPD, wo er sich gründlich mit den Werken Lenins vertraut machte. Ab Januar 1930 richtete die SHTZ die Beilage "Der Proletarier" ein und opponierte offen gegen Hitlers probürgerlichen Kurs.
Am 10. Februar 1930 organisierte die Itzehoer NSDAP eine Kundgebung zum Hungermarsch der kommunistischen Arbeitslosen ("Hungermarsch oder Freiheitskampf"), die zum Schlüsselerlebnis werden sollte. Zwar sprach mit Johannes Engel einer der Begründer der im Entstehen begriffenen Nationalsozialistischen Betriebszellen-Organisation, aber Uhse zeigte sich eher von den Ausführungen des kommunistischen Diskussionsredners Karl Olbrysch aus Hamburg beeindruckt: "Ist denn der Kampf für die Freiheit eure Sache? Wieso kämpft ihr und wieso für die Freiheit? Ihr schleicht euch über die Hintertreppen der ratlos gewordenen Demokratie...Auf der Parlamentstribüne nennt ihr euch Revolutionäre, vor dem Richterstuhl aber beschwört ihr die Legalität. Und es ist euch ernst damit, denn ihr seid die missratenen Kinder des Liberalismus und treibt dessen doppelte Moral demagogisch auf den Gipfel. Er sagt: Gleichheit, und lässt für den Profit von einem halben Tausend Mächtiger sechs Millionen ohne Arbeit in Elend und Hunger. Ihr seid nicht so duldsam, ihr ruft mit kühner Stirn zum Kampf gegen das Kapital, und mit gleicher Stimme lockt ihr, in eurer Volksgemeinschaft habe der Arbeiter wie der Trustbesitzer, der Handwerker wie der Sohn des davongelaufenen Verbrechers von Doorn seinen Platz. Nationaler Sozialismus, ruft ihr grimmig, aber eurer Sozialismus endet, bevor er anfängt, denn das Privateigentum erklärte Hitler für heilig...Wenn ihr auf die Demokratie schimpft, um sie zu betrügen – auf den Kapitalismus schimpft ihr, um ihm besser dienen zu können. Das nennt ihr Kampf, wenn ihr mit den mächtigsten Mächten im Land verbündet seid? Das nennt ihr Revolution, wenn ihr das Grundgesetz der alten Ordnung von vornherein heilig sprecht?... Ihr Narren, wir eifern nicht mit eurem Patriotismus. Aber wer ist denn Deutschland? Die Millionen Arbeiter, die Millionen kleiner Bauern! Wie kann Deutschland frei sein, wenn sie, sein Volk, unterdrückt sind? Die Freiheit der Nation liegt außerhalb der Kraft des Nationalsozialismus... Deutschland, das Deutschland der Arbeiter und Bauern, gilt uns viel. Darum wollen wir es davor bewahren, dass sich die Bourgeoisie, die zu feige war, achtundvierzig im Sturm sich zu erheben, als dieses Deutschland ihre Sache war, sich jetzt aus diesem Deutschland ihr Sterbebett macht."
Folgerichtig war Bodo Uhse auch in die Bestrebungen der Parteilinken verwickelt, eine Parteispaltung herbeizuführen und zusammen mit den norddeutschen NSDAP-Gliederungen, Nationalrevolutionären wie Ernst Niekisch und dem Landvolk eine neue nationalsozialistische Partei aufzubauen. Es ging um nichts weniger als um die Sprengung der NSDAP von innen heraus, um den Pressekonflikt zwischen Goebbels und dem Strasserschen Kampfverlag auszunutzen. Kurz vor dem Parteiaustritt der Revolutionären Nationalsozialisten um Otto Strasser suchte Uhse diesen in Berlin auf. Strasser wollte jedoch Hitler lediglich den "wahren Nationalsozialismus" streitig machen und keinesfalls auf Linkskurs gehen. Der Parteirebell warnte Strasser vergebens, man brauche eine andere Idee, um erfolgreich gegen Hitler anzutreten. Folgerichtig entwickelten sich die Revolutionären Nationalsozialisten zu einer lautstarken, aber unbedeutenden Splittergruppe, die für viele Renegaten lediglich als Durchlauferhitzer für den Wechsel zur KPD oder zu nationalbolschewistischen Gruppen fungierte. Bei seiner Rückkehr nach Itzehoe fand Uhse ein Ultimatum Lohses vor: Bedingungslose Unterordnung unter die Münchener Richtung oder Ende der Redaktionstätigkeit. Der Chefredakteur der SHTZ lehnte ab und wurde am 16. Juli 1930 mit Wirkung zum 1. August aus der NSDAP ausgeschlossen.
5. Hinwendung zum Kommunismus
Nach dem Hinauswurf aus SHTZ und NSDAP bewegte Bodo Uhse sich zunächst im Dunstkreis der Revolutionären Nationalsozialisten – vollständig wollte auch er nicht mit dem nationalen Sozialismus brechen. Am 15. August feierte er als neuer Chefredakteur der strasseristischen "NS-Briefe" den terroristischen Kampf der Landvolkbewegung. Seine rechte Hand war der Landvolkagitator Bruno von Salomon. Bereits im November reihte Uhse sich in den nationalbolschewistischen Widerstands-Kreis Ernst Niekischs ein, um gleichzeitig unter dem Pseudonym Christian Klee weiterhin die NS-Briefe herauszugeben. Für den "Widerstand" referierte Uhse auf zahlreichen Veranstaltungen über die Landvolkbewegung, wobei er vor allem unter den Überresten des Bundes Oberland regen Zuspruch fand.
Am 21. März 1931 fanden die Aktivitäten für Niekisch ein Ende. Uhse verließ Itzehoe, um antifaschistische Bauernkomitees im Raum München zu organisieren. Endgültig überzeugt wurde er durch Gespräche mit den Kommunisten Christian Heuck und Karl Olbrysch: "Während wir sprachen, begriff ich..., dass die Sehnsucht meines Lebens sich erfüllte, dass etwas Neues begann und alles Bisherige nur mit Platzpatronen geschossen war. Es wurde Ernst, da der Krampf eines Jahrzehnts sich löste und der Zwiespalt, der bisher mein Leben zerrissen hatte, jener Zwiespalt, entstanden aus dem Bewusstsein von der Kraft der Arbeiterklasse und aus dem ständigen Kampf mit ihr und gegen sie, dass dieser Zwiespalt sein Ende fand dadurch, dass ich mich der großen Kraft ergab...Die große Kraft, mit der ich mich herumgeschlagen hatte, seit wir ausmarschiert waren unter der Edelweißfahne, die ich hatte mit kleinen Mitteln betrügen wollen unter dem Hakenkreuz, sie beschenkte mich, da ich mich ihr unterwarf, in dieser Nacht mit dem kostbarsten Gut. Das Leben bekam wieder einen Sinn."
Bedeutsam dürfte sich hierbei ausgewirkt haben, dass die KPD seit ihrem Programm zur nationalen und sozialen Befreiung Deutschlands vom August 1930 eine ausgesprochen nationalistische Haltung einnahm – die sozialistische Volksrevolution der unterdrückten Klassen sollte der Auftakt zur nationalen Befreiung sein. Im Frühjahr 1931 veröffentlichte die KPD als weiteren Teil ihres nationalistischen Kurses das Bauernhilfsprogramm mit der Forderung nach Zerschlagung des Großgrundbesitzes, das nicht zuletzt von Uhse und Salomon auf einem antifaschistischen Bauernkongress in Fulda der Öffentlichkeit vorgestellt wurde. Die Motive der sogenannten Komiteebewegung legte Uhse unter seinem Pseudonym Christian Klee in der Erstlingsnummer des "Aufbruch" nahe. Mit diesem Blatt wollte die KPD unzufriedene Nationalsozialisten und frustrierte Nationalrevolutionäre für sich gewinnen. Zur Redaktionsmannschaft gehörten neben bekannten KPD-Funktionären prominente "Nationalkommunisten" wie Ludwig Renn und Alexander Graf Stenbock-Fermor oder NS-Renegaten wie Wilhelm Korn und Rudolf Rehm, denen sich bald auch der ehemalige Oberland-Führer Beppo Römer hinzugesellen sollte.
"Darum ist jetzt die Stunde da, in der die revolutionäre Arbeiterschaft die historische Wendung zum Bauern tun musste. Die Kommunisten haben durch die Proklamation ihres Bauernhilfsprogramms alle vor die Entscheidung gestellt...An diesem Bauernhilfsprogramm der Kommunisten scheiden sich die Wege. Die Kampfgenossin der verarmten Bauernmillionen, die revolutionäre Arbeiterschaft, wird für dieses Programm kämpfen. Wer gegen die schaffenden Bauern ist, wird dieses Programm ablehnen, und das tun sie alle, von SPD bis zu den Nazis! Die revolutionäre Arbeiterschaft aber wird dieses Programm ins Dorf hinaus tragen. Sie hat begriffen, dass es in der kommenden Volksrevolution keine Vendée, keinen weißen Ring um die Städte geben darf. Der Arbeiter geht zum Bauern, ihm geht es nicht um Taktik oder Stimmenfang, ihm geht es um die Revolution. Die Revolution ohne den Bauern ist nur eine halbe Revolution, und eine halbe Revolution ist keine Revolution. (...) Wir sagen dir, Bauer: Du und der Arbeiter in der Stadt, ihr leidet die gleiche Not. Euch richtet derselbe Ausbeuter zugrunde, gleichgültig ob es der jüdische Wucherer oder der christliche Regierungsmann, der semitische Bankier oder der arische Junker ist. Ihr habt beide den gleichen Todfeind: das kapitalistische System. Dieses System muss sterben, wenn das Volk leben will. Darum Bauer Ahoi! Her in die revolutionäre Front!"
In diesem Sinne setzte Uhse seine Agitation unter der Bauernschaft fort. Auf der Tagung der Widerstands-Bewegung auf der Leuchtenburg bei Jena gehörte er zu den Hauptreferenten, weitere Auftritte gab es auf Veranstaltungen der Gruppe Sozialrevolutionärer Nationalisten. Schon im Januar avancierte der Agitator zum Sekretär des Reichsbauernkomitees der KPD. Im Frühjahr verhinderte Uhse in dieser Funktion die Kandidatur des zu einer langjährigen Zuchthausstrafe verurteilten Landvolkführers Claus Heim bei den Reichspräsidentschaftswahlen – die Komiteebewegung und der "Aufbruch" unterstützten die Kandidatur des KPD-Vorsitzenden Ernst Thälmann gegen Hitler und Hindenburg. Der Winter des Jahres 1932 sah Uhse in der Rhön, wo er den aktiven Widerstand des Landproletariats gegen den lohndrückerischen Freiwilligen Arbeitsdienst organisierte.
Nach dem Reichstagsbrand musste Bodo Uhse untertauchen, um einer Verhaftung zu entgehen. Einer Mitte April unter dem Vorwand einer Mordverschwörung gegen Hitler eröffnete Razzia unter prominenten Nationalrevolutionären entging er nur knapp und setzte sich nach Paris ab, wo er Bruno von Salomon wiedertraf. Nach anfänglichem Misstrauen etablierte Uhse sich sehr schnell in der Exilpublizistik und in der Propagandaarbeit der KPD gegen das Dritte Reich. Von Paris aus unterhielt er Verbindungen zu der im Untergrund aktiven Widerstands-Bewegung Niekischs. 1934 erfolgte mit einem offenen Brief an den nunmehrigen Chefredakteur bei der SHTZ die literarische Kampfansage an den real existierenden Nationalsozialismus. "Heute sitzen Sie an meinem Platz. Ich beneide Sie nicht darum. Die Schweigsamkeit ist ja Ihr vornehmstes Amt geworden...Wo Sie nicht schweigen, da müssen Sie lügen...Es lässt sich auch vom Standpunkt der nationalen Politik nichts Schlimmeres denken, als Eure nationalsozialistische Politik." Das Regime antwortete mit der Ausbürgerung am 3. November 1934.
Etwa gleichzeitig konnte Uhse mit Hilfe des Journalisten und Publizisten Egon Erwin Kisch seine ersten eigenen schriftstellerischen Arbeiten veröffentlichen. Im Jahr 1935 erfolgte der Beitritt zur Exil-KPD, für die er im Juni neben Johannes R. Becher und Bertolt Brecht am Ersten Internationalen Schriftstellerkongress in Paris teilnahm. Nach dem Ausbruch des Spanischen Bürgerkrieges meldete der bei Oberland ausgebildete Uhse sich zu den Internationalen Brigaden. In Spanien kämpfte er in den Reihen des französischen Bataillons "Edgar André" und war ab April 1937 als Politkommissar im Stab der 17. Division unter Hans Kahle tätig. Gemeinsam mit Ludwig Renn betätigte Uhse sich in der Propaganda unter den Truppen der Legion Condor, so im Rundfunk: "Kameraden! Ihr seid die Träger einer ruhmreichen Tradition – so sagt man euch, und ihr seid es wirklich. Der deutsche Soldat hat sich zu allen Zeiten tapfer geschlagen. Meist für andere, häufig gegen den eigenen Bruder, nie für sich, nie für sein Glück, nie für das Wohl von Vater und Mutter, von Bruder und Schwester." Anfang 1938 kehrte Uhse erkrankt nach Frankreich zurück. Im April 1939 ging er in die USA, um dort unter den deutschen Emigranten für die KPD tätig zu werden. In gleicher Funktion siedelte Uhse 1940 nach Mexiko über, wo er zusammen mit Ludwig Renn für die Bewegung Freies Deutschland tätig war.
5. Kulturpolitik in der DDR
Im Sommer 1948 kehrte Bodo Uhse nach Paßschwierigkeiten in die Sowjetische Besatzungszone zurück. Hier wurde er im Januar 1949 Chefredakteur der kulturpolitischen Monatszeitschrift "Aufbau". Bis zur Einstellung des Blattes im Jahr 1958 war er in dieser Funktion maßgeblich an der Ausformung des kulturpolitischen Lebens der frühen DDR beteiligt. Von 1950 bis 1954 gab es zudem ein Intermezzo als Volkskammerabgeordneter der SED. Im Tagebuch notierte Uhse zu dieser Zeit: "Ja, ich glaube, man kann mit Worten etwas ausrichten. Man hat es immer gekonnt und kann es auch jetzt – auch jetzt noch. Nicht mit dem Wort allein – aber mit dem Wort, das wahr und richtig die Wirklichkeit erkennt und schon genug wiegt, um Teil der Wirklichkeit zu werden, und als solches die Menschen beeinflusst. Ich fühle, dass ich nun wieder da bin, wo ich angefangen habe, nämlich bei der beklemmenden Schwere meiner Aufgabe. Aber wie sie zu lösen ist, darüber bin ich mir nicht klargeworden."
Von 1950 bis 1952 bekleidete Uhse die Posten eines Präsidialrates des Deutschen Kulturbundes und des Vorsitzenden des DDR-Schriftstellerverbandes. Selbstverständlich widmete er sich auch der Agitation gegen die separatistische BRD und Adenauers rücksichtslose Westintegration: Schon Ende der 20er Jahre und in den frühen 30er Jahren hatte man in Deutschland die nationale Frage unter dem Schlagwort der bolschewistischen Gefahr im Sinne der Großbourgeoisie gelöst. Der Uhse-Biograph Klaus Walther formulierte treffend: "Als 1948 durch die separate Währungsreform und 1949 durch die Errichtung eines Westzonenstaates die staatliche Einheit Deutschlands zerstört wurde, hatte der Klassenkampf übernationale Dimensionen gewonnen; auf deutschem Boden wurde er als Kampf um die deutsche Einheit ausgetragen."
Der Kampf um die nationale Einheit Deutschlands und für den Frieden sollte Sache einer breiten Einheitsfront sein. Schon in der ersten von Uhse zu verantwortenden Nummer des "Aufbruch" kamen so unterschiedliche Autoren wie Arnold Zweig, Rudolf Alexander Schröder oder Wolfgang Weyrauch zu Wort. Neben der kulturpolitischen Arbeit, die stets mit aktuellen Fragen verknüpft war, widmete die Zeitschrift sich auch der Förderung von Nachwuchstalenten. "Wir müssen überall dort anknüpfen, wo sich die deutsche Literatur gegen die Misere erhob oder sie gar überwand, wo sie wahrhaft humanistische Züge trägt und also im tiefsten Sinne national und fortschrittlich ist." Im Wechselverhältnis mit der "Beachtung, Prüfung, Durchsicht und Wertung" des literarischen Erbes sollte eine neue deutsche Literatur geschaffen werden.
1956 avancierte Uhse zum Sekretär der Sektion Dichtkunst und Sprachpflege der Akademie der Künste. Er nahm für die DDR am PEN-Kongress in London und an der antiimperialistischen Schriftstellerkonferenz in Neu-Delhi teil. Nach einem Kuba-Aufenthalt im Jahr 1961 setzte eine schwere Erkrankung seinen Aktivitäten ein Ende - Bodo Uhse starb am 2. Juli 1963 in Berlin.
"Wenige Stunden vor seinem Tod saßen wir lange in seinem Arbeitszimmer über dem Strausberger Platz zusammen. Er war heiter, aufgeschlossen, wie ich ihn seit langem nicht gesehen hatte...Er sprach so leise, zögernd, tastend wie immer. Und wie immer spürte ich, was sich hinter dieser leisen Stimme verbarg: dass es in ihm brannte, in ihm schrie." (Kurt Stern)
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vendredi, 06 novembre 2009
"Ernst Jünger " de Dominique Venner
Le livre que Dominique Venner vient de publier aux Editions du Rocher (ici) sur Ernst Jünger fera date. Cet essai du Directeur de La Nouvelle Revue d’Histoire sur le monumental écrivain allemand n’est ni une biographie, ni une étude littéraire proprement dites.
Dans cet essai Dominique Venner tente d’expliquer comment un des penseurs de la droite radicale de l’après Grande Guerre, auteur de La guerre notre mère est devenu un adversaire du nazisme qu’il avait, avant son avènement, espéré voir donner à l’Allemagne vaincue une renaissance attendue et à quel point sa pensée peut être intemporelle
L’auteur est bien placé pour comprendre l’émetteur d’idées allemand, sensible comme un sismographe aux évolutions du temps. Car comme lui il a connu l’épreuve du feu. Jünger sous les orages d’acier de la Grande Guerre, Venner en tant que soldat perdu de la guerre d’Algérie.
Ceux de ma génération qui n’ont pas connu de guerres du tout ont du mal à comprendre réellement, profondément, que les guerres puissent féconder ainsi les vies intérieures des hommes, être de véritables expériences fondatrices, avec des résultats bien différents d’ailleurs selon les tempéraments :
Si l’on compare deux témoignages de guerre parmi les plus marquants, écrits par deux auteurs souvent rapprochés, on découvre que La Comédie de Charleroi, de Pierre Drieu la Rochelle, malgré la victoire française de 1918, ressemble fort à un livre de vaincu, alors que Le Boqueteau 125, écrit [par Jünger] après la défaite allemande de 1918, semble plutôt un livre de vainqueur.
Ce qui fait d’Ernst Jünger un soldat et un écrivain hors normes c’est qu’il [vise] plus haut que le but qu’il s’est assigné et qu’il a une constante « tenue » au moral et au physique. Un tel homme, qui est un écrivain né, ne peut pas être un doctrinaire et ne l’est d’ailleurs pas. C’est un écrivain qui a des idées, mais :
Ces idées sont soumises à variation sans souci de cohérence idéologique.
En réalité :
Jünger vivait pour l’idée et non par l’idée. L’idée était sa raison de vivre, mais elle ne lui rapportait rien sinon des tracas. Jünger était un penseur idéaliste et profond. Il ne fut jamais un politicien pratique, tout en s’adonnant au romantisme politique plus qu’il n’en a convenu.
Si les œuvres de jeunesse semblent contredire celles de la maturité qui commencent avec Sur les falaises de marbre, Jünger considère ses œuvres comme des périodes et non pas comme des contradictions. Pour lui il y a continuité dans ses œuvres de jeunesse et de maturité comme le Nouveau Testament prolonge l’Ancien :
Seule la conjugaison [des parties de mon œuvre] déploie la dimension au sein de laquelle je souhaite qu’on me comprenne.
Jünger en dépit de son nationalisme originel ne pouvait que s’opposer à Hitler. Dominique Venner en fin d’ouvrage résume les idées qui ont nourri cette opposition :
Son refus de l’antisémitisme et du darwinisme racial, son opposition à la russophobie, lui-même souhaitant l’alliance de l’Allemagne et de la Russie, même bolchevique.
Et souligne :
[Sa] répugnance toujours plus grande […] à l’égard des dirigeants d’un parti brutal, indignes d’incarner la nouvelle Allemagne.
Il y a plus :
[Jünger] a pris […] la mesure de ses vraies aptitudes, finissant par détester en Hitler ce qu’il n’était pas. Il avait commis l’erreur fréquente des idéalistes perdus en politique. Il n’avait pas compris à temps que celle-ci appartient au monde de Machiavel et non à celui de Corneille.
Une fois comprise cette opposition l’œuvre de Jünger s’éclaire d’un tout autre jour, surtout quand on sait que :
Dans toute son œuvre, Jünger montre qu’il ne pense pas de façon historique, mais à travers des mythes intemporels.
Jünger, dans Le Nœud gordien, paru initialement en 1953, explique que l’essence de l’antinomie dans chaque débat entre l’Est et l’Ouest se trouve dans la notion de liberté qui a deux significations majeures pour l’Occidental : liberté spirituelle d’abord et :
Liberté politique ensuite, refus de l’arbitraire, dont Jünger perçoit tout à la fois les limites et la nécessité.
En héritier de cette conception de la liberté typiquement occidentale Venner est convaincu :
Que l’Europe, en tant que communauté millénaire de peuples, de culture et de civilisation, n’est pas morte, bien qu’elle ait semblé se suicider. Blessée au cœur entre 1914 et 1945 par les dévastations d’une nouvelle guerre de Trente Ans, puis par sa soumission aux utopies et systèmes des vainqueurs, elle est entrée en dormition.
Cette intime conviction repose sur ce que l’étude historique lui a appris, mais aussi sur l’exemple insigne donné par l’attitude et la pensée d’un Ernst Jünger.
Pour ma part je reconnais qu’il y a en moi de l’anarque, figure tardive de l’univers jüngerien, qui m’est contemporaine et est décrite dans Eumeswil, roman publié en 1977 par Jünger à l’âge de 82 ans :
Sa mesure lui suffit ; la liberté n’est pas son but ; elle est sa propriété.
Francis Richard
Pour l'internaute intéressé, Dominique Venner a depuis peu un blog : (ici).
00:20 Publié dans Livre | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : nouvelle droite, révolution conservatrice, littérature allemande, lettres allemandes, lettres, littérature, allemagne, années 20, années 30, années 40, première guerre mondiale, deuxième guerre mondiale, seconde guerre mondiale | |
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Le "socialisme allemand" de Werner Sombart
Archives de SYNERGIES EUROPEENNES – 1990
Thierry MUDRY:
Le “socialisme allemand” de Werner Sombart
Né en 1863 à Ermsleben, Werner Sombart est le fils d'Anton Ludwig Sombart, hobereau et industriel prussien, membre libéral de la Chambre prussienne des Députés et du Reichstag.
Werner Sombart étudie l'économie politique et le droit dans les Universités allemandes. Après avoir obtenu son doctorat, il est d'abord secrétaire de la chambre de commerce de Brême puis professeur extraordinaire (chargé de cours) à l'Université de Breslau. Mais le "radicalisme" de Sombart (influencé par Lassalle et Marx) lui vaut la défaveur du ministère prussien de l'instruction publique: son avancement est stoppé. En 1906, il donne des cours à l'Ecole des hautes études commerciales de Berlin et plusieurs années plus tard, en 1918, il devient enfin professeur ordinaire à l'Université de Berlin où il prend la succession d'Adolf Wagner, l'un des maîtres de la Jeune Ecole historique et du "socialisme de la chaire" (Kathedersozialismus).
Economiste et sociologue, Sombart apparaît comme l'historien du capitalisme mais aussi comme un critique impertinent du capitalisme. Sombart s'éloigne cependant peu à peu d'une critique d'inspiration marxiste pour adopter une critique d'inspiration nationaliste et luthérienne. On distingue aisément le Sombart qui se consacre à l'étude scientifique du capitalisme et particulièrement à l'étude de la genèse de l'esprit capitaliste et le Sombart militant qui prend fait et cause pour le mouvement ouvrier à la fin du XIXème siècle et au début de ce siècle, pour l'Allemagne pendant la Grande Guerre et pour le "socalisme allemand" dans les années 30. Le premier Sombart est l'auteur en 1902 des tomes I et II du "Capitalisme moderne" qui connaîtront des rééditions successives en 1916 et 1924/27 (Sombart publiera en 1928 le tome III traduit en français sous le titre L'apogée du capitalisme); en 1903 de L'économie allemande du XIXème siècle; en 1911 d'un ouvrage sur Les Juifs et la vie économique (traduit en français); en 1913, il publie Le bourgeois (également traduit en français) et ses études sur le développement du capitalisme moderne: Luxe et capitalisme, Guerre et capitalisme, etc. En revanche, Le socialisme et le mouvement social au XIXème siècle publié en 1896 (traduit en français), Commerçants et héros qui parut pendant la Grande Guerre, Le socialisme prolétarien publié en 1924 et Le socialisme allemand publié en 1934 (traduit en français) sont indiscutablement l'œuvre du Sombart militant.
Sombart = Marx + l’école historique?
D'après Schumpeter (à qui Sombart céda sa chaire à l'Université de Berlin), Sombart aurait subi tout autant l'influence de Karl Marx que celle de l'Ecole historique.
Sombart étudia l'économie politique à Berlin, or "l'enseignement économique était alors dans les universités allemandes sous l'influence de l'Ecole historique réagissant contre l'étroitesse d'esprit et l'optimisme exagéré du libéralisme (le Manchestertum "fossile") et plus ou moins imbu de socialisme d'Etat" (André Sayous, préface à L'apogée du capitalisme de Werner Sombart, Payot, Paris, 1932, pp XII et XIII). Sombart eut pour maîtres à l'Université de Berlin Gustav Schmoller et Adolf Wagner. Ce dernier, qu'une commune admiration pour les travaux de Ferdinand Lassalle (l'un des pères du socialisme d'Etat) rapprochait de Sombart, le désigna d'ailleurs comme son successeur à l'Université. Pour certains, il conviendrait de ranger Sombart parmi les auteurs de l'Ecole historique mais ce n'est pas l'avis d'André Sayous: "économiste et sociologue, il (Werner Sombart) traite en réalité l'histoire comme une "science auxiliaire" qu'il utilise, répétons-le, avec une grande liberté d'esprit et même, parfois, selon son bon plaisir" (ibid., p. XVII) mais, reconnaît Sayous, "Sombart a conservé des liens avec l'Ecole historique. Généralement, son argumentation repose sur l'histoire et il se sert de celle-ci dans l'esprit démonstratif des maîtres de l'école allemande" (ibid., p. XVIII).
Sombart a subi aussi l'influence de Karl Marx. En 1894, Sombart accueille avec enthousiasme la publication du troisième volume du Capital et publie une étude sur le marxisme qui lui vaut les éloges de Friedrich Engels. Deux ans plus tard, il écrit Le socialisme et le mouvement social du XIXème siècle. Mais Sombart s'éloigne peu à peu du marxisme, la 10ème édition de son Socialisme et mouvement social parue en 1924 sous le titre Le socialisme prolérarien apparaît aux yeux de certains comme une diatribe anti-marxiste. Mais devenu pourtant "anti-marxiste", Sombart reconnaît volontiers sa dette envers Marx. Dans l'introduction à L'apogée du capitalisme, il se défend d'avoir voulu attaquer Marx: au contraire, affirme-t-il, "je m'étais proposé de continuer et, dans un certain sens, de compléter et d'achever l'œuvre de Marx. Tout en repoussant la conception du monde de Marx et, avec elle, tout ce qu'on désigne aujourd'hui, en synthétisant et précisant son sens, sous le nom de "marxisme"; j'admire en lui sans réserves le théoricien et l'historien du capitalisme. Tout ce qu'il y a de bon dans mes propres ouvrages, c'est à l'esprit de Marx que je le dois, ce qui ne m'empêche naturellement pas de m'écarter de lui non seulement sur des points de détail, voire dans la plupart de mes façons de voir particulières, mais sur des points essentiels de ma conception d'ensemble" (ibid., p.15). En 1934, dans Le socialisme allemand (paru dans sa traduction française chez Payot, Paris, 1938), Sombart opère une distinction entre le "marxisme pratique" et le marxisme "qui, à titre de théorie historique, est d'une incomparable valeur pour les sciences sociales" (p. 100).
Sombart et l'étude du capitalisme
Pour Sombart, le capitalisme -qu'il définit par ailleurs comme une "catégorie historique"- est un "système économique" qui "repose d'une façon subjective sur le primaire de l'acquisition, trouvant son expression dans le gain; il est essentiellement "individualiste", car il a comme base la concurrence; enfin, il représente les idées de rationalisation dans l'ordre économique" (André Sayous, op. cit., p. XX).
Sombart distingue trois périodes dans l'histoire du capitalisme:
- le "capitalisme primitif" qui prend fin avec la révolution industrielle;
- le "haut capitalisme" ou "apogée du capitalisme" qui correspond à la période s'étendant de l'emploi métallurgique du coke (dont Sombart situe les débuts dans les années 1760/1770) à la Ière guerre mondiale. "C'est au cours de cette époque que le capitalisme a réalisé son épanouissement le plus complet et est devenu le système économique dominant" (L'apogée du capitalisme, p.12);
- le "capitalisme tardif", période qui s'ouvre avec la Ière guerre mondiale.
Pour Sombart, il ne fait pas de doute que "les forces motrices de la vie économique" ne sont pas plus la piété puritaine que la plus-value du capital (Sombart renvoie ici dos à dos Weber et Marx); ni même la division du travail et la concurrence chères aux économistes classiques, ni non plus le système juridique, la technique ou la démographie. Les seules forces motrices de l'histoire en général et de la vie économique en particulier, ce sont les hommes vivants avec leurs pensées et leurs passions et surtout certains d'entre eux. C'est l'homme, en tant que sujet de l'histoire, qui construit les systèmes économiques. Ainsi, le capitalisme naissant "fut l'œuvre de quelques hommes d'affaires entreprenants, appartenant à toutes les couches de la population. Il y avait parmi eux des nobles, des aventuriers, des marchands, des artisans, mais ils ont été pendant longtemps trop faibles pour imprimer à la vie économique une direction décisive. A côté d'eux, des princes énergiques (...) et plus particulièrement de hauts fonctionnaires, comme Colbert, ont joué dans l'évolution économique de l'époque un rôle de premier ordre (en poussant les particuliers dans des entreprises capitalistes)" (ibid., p. 29). A l'époque du capitalisme avancé "toute la direction de la vie économique a passé entre les mains des entrepreneurs capitalistes qui, désormais soustraits à la tutelle de l'Etat, sont devenus (...) les seuls organisateurs du processus économique, pour autant que celui-ci se déroule dans le cadre de l'économie capitaliste" (ibid., p.30). L'entrepreneur capitaliste est donc la seule force motrice de l'économie capitaliste moderne. Il est la seule force productive: "tous les autres facteurs de la production, le capital et le travail, se trouvent sous sa dépendance, ne sont animés que par son activité créatrice. De même, toutes les inventions techniques ne reçoivent que de lui leur vitalité" (ibid., p.31).
Le capitalisme va-t-il mourir d’un excès de rationalisation?
Sombart a consacré les deux premiers tomes de son Capitalisme moderne à l'étude du pré-capitalisme et du capitalisme primitif et le troisième tome à l'étude du haut capitalisme. Quant au capitalisme tardif, Sombart y a consacré la conclusion de son Apogée du capitalisme. La principale caractéristique de cette période serait "la substitution du principe de l'entente à celui de la libre-concurrence". Le déclin du capitalisme s'amorce et celui-ci, pense Sombart, va probablement mourir d'un excès de rationalisation. "La crise allait évidemment donner une puissante accélération à la thèse du déclin, largement vulgarisée par Fried, disciple de Sombart et collaborateur de la revue Die Tat, dont le livre intitulé La fin du capitalisme (1931) fut une manière de best-seller dans les milieux nationalistes" (Louis Dupeux, Stratégie communiste et dynamique conservatrice ..., Librairie Honoré Champion, Paris, 1976, p. 12).
Sombart "a distingué des périodes de civilisation et conçu chacune d'elles comme un "système" d'un "esprit" ou "style déterminé" ... "où ainsi que chez Karl Marx, les fonctions économiques constituent les bases et les caractères propres de la période, mais où, différence fondamentale, chaque sentiment de l'économique est précisé d'une façon spéciale" (André Sayous, op. cit., pp. x et xi). "Ce qui imprime à une époque, et aussi à une période économique, son cachet particulier, c'est son esprit" écrit Sombart (ibid., p.8). Le capitalisme s'accompagne d'un "esprit capitaliste" et c'est cet esprit qui, en se transformant, a fait évoluer le capitalisme.
Mais, quel est cet "esprit capitaliste" et quel rôle joue-t-il dans l'apparition et l'évolution du capitalisme? Sombart apporte des éléments de réponse dans son livre Le bourgeois.
L'esprit capitaliste (c'est-à-dire l'esprit qui anime l'entrepreneur capitaliste et qui caractérise le système que celui-ci crée) est né, pense Sombart, de la réunion de l'esprit d'entreprise et de l'esprit bourgeois: "(...) L'esprit d'entreprise est une synthèse constituée par la passion de l'argent, par l'amour des aventures, par l'esprit d'invention, etc. tandis que l'esprit bourgeois se compose, à son tour, de qualités telles que la prudence réfléchie, la circonspection qui calcule, la pondération raisonnable, l'esprit d'ordre et d'économie. (Dans le tissu multicolore de l'esprit capitaliste, l'esprit bourgeois forme le fil de laine mobile, tandis que l'esprit d'entreprise en est la chaîne de soie)" (Le bourgeois, Payot, Paris 1966, p. 25).
Sombart distingue parmi les sources de l'esprit capitaliste:
- des bases biologiques: les "natures bourgeoises" et les "prédispositions ethniques" (chez les Etrusques, les Frisons et les Juifs);
- les forces morales: la philosophie (interprétation rationaliste et utilitariste des écrits stoïciens, auteurs rustiques romains), les influences religieuses (catholicisme, protestantisme, judaïsme), les forces morales proprement dites (morale sociale conduisant à l'adoption et au culte des "vertus bourgeoises");
- les "conditions sociales": l'Etat, les migrations, la découvertes de mines d'or et d'argent, la technique, l'activité professionnelle pré-capitaliste, le capitalisme comme tel.
La controverse entre Weber et Sombart
Max Weber s'est élevé "contre les prétentions dogmatiques d'une explication totale de l'histoire par l'économie" mais "il ne voulait nullement -constate Raymond Aron (La sociologie allemande contemporaine, PUF, Paris 1981, pp.112/113)- réfuter le marxisme en lui opposant une théorie idéaliste de l'histoire, qui lui aurait paru aussi schématique et indéfendable que le matérialisme historique". Sombart approuve Weber sur ce point: dans Le bourgeois, Sombart constate la multiplicité des causes qui permettent d'expliquer la genèse de l'esprit capitaliste. Il s'en prend aux "partisans intransigeants de la conception matérialiste de l'histoire", mais écrit-il, "opposer à l'explication causale économique une autre explication universelle est une chose dont je me sens incapable (...)" (p.338). Tous deux voient dans la religion une des causes du capitalisme. Dans L'éthique protestante et l'esprit du capitalisme, Weber attribue au calvinisme un rôle important dans la genèse de l'esprit capitaliste: "jamais assuré de son élection, le calviniste en cherche les signes ici-bas. Il les trouve dans la prospérité de son entreprise. Mais il ne peut s'autoriser du succès pour se reposer ou utiliser son argent en vue du luxe ou du plaisir. Il doit donc réemployer cet argent dans l'entreprise: formation de capital par obligation ascétique. Bien plus, seul le travail régulier, rationnel, le calcul qui permet à chaque instant de se rendre compte de la situation de l'entreprise, seul le commerce pacifique sont en accord avec l'esprit de cette morale" (Raymond Aron, op. cit., p.112). Sombart, pour sa part, attribue au thomisme et au judaïsme un rôle bien plus important que le calvinisme dans l'apparition de l'esprit capitaliste.
En imposant un droit naturel rationnel fondé sur le Décalogue mais qui intégrait aussi "la philosophie grecque de la dernière période de l'hellénisme", le thomisme a opéré une rationalisation déjà de nature à favoriser la mentalité capitaliste. "Pour que le capitalisme put s'épanouir, l'homme naturel, l'homme impulsif devait disparaître et la vie, dans ce qu'elle a de spontané et d'original, céder la place à un mécanisme psychique spécifiquement rationnel: bref, l'épanouissement du capitalisme avait pour condition un renversement, une transmutation de toutes les valeurs" (Le bourgeois, pp. 227/228). A cela, il faut ajouter la condamnation par le thomisme et les scolastiques, de la prodigalité (mais aussi de l'avarice) et de l'oisiveté, l'idéal bourgeois "d'une vie chaste et modérée", le culte de la décence et de l'honorabilité, les préceptes d'une administration juste et rationnelle: ainsi s'opéra une sorte de "dressage psychique" qui réussit à transformer en entrepreneurs capitalistes "le seigneur impulsif et jouisseur d'une part, l'artisan obtus et nonchalant d'autre part" (ibid., p.231). Sombart note enfin chez certains scolastiques (notamment italiens), qui ici dépassent la pensée de Thomas d'Aquin, une profonde sympathie pour le capitalisme.
En jugeant très favorablement la richesse, en élaborant un rationalisme très rigoureux, le judaïsme contenait et développait "jusqu'à leurs dernières conséquences logiques, toutes les doctrines favorables au capitalisme" (ibid., p.250)". Mais ce qui a permis à la religion juive d'exercer une action vraiment décisive, c'est le traitement particulier qu'elle appliquait aux étrangers. La morale juive était une morale à double face, et ses lois différaient selon qu'il s'agissait de Juifs ou de non-Juifs" (ibid., p.251). "Le traitement différentiel que le droit juif appliquait aux étrangers" a eu pour conséquences: le relâchement de la morale commerciale et la transformation précoce des "conceptions relatives à la nature du commerce et de l'industrie, et cela dans le sens d'une liberté de plus en plus grande" (ibid., pp 254 et 255). Sombart étudia d'une manière plus précise dans son livre sur "Les Juifs et la vie économique" les rapports entre judaïsme et capitalisme.
Luthérianisme, calvinisme, thomisme et scolastique
Le protestantisme apparaît dès lors singulièrement en retrait: "comme le mouvement inauguré par la Réforme a eu incontestablement pour effets une intériorisation de l'homme et un raffermissement du besoin métaphysique, les intérêts capitalistes devaient nécessairement souffrir dans la mesure où l'esprit de la Réforme se répandait et se généralisait" (ibid., p.239). Le luthérianisme se montra particulièrement anti-capitaliste (et Sombart devait recueillir l'héritage de cet anti-capitalisme luthérien). Le puritanisme lui-même (variante anglo-saxonne du calvinisme) fut une entrave au développement du capitalisme avec son idéal de pauvreté hérité du christianisme primitif, sa "condamnation sévère de tout effort ayant pour objectif l'acquisition de la richesse, c'est-à-dire, et avant tout, une condamnation des moyens de s'enrichir qu'offre le capitalisme" (ibid., p.241). Mais, après la morale scolastique (ou thomiste), "à son tour, la morale puritaine proclame la nécessité de la rationalisation et de la méthodisation de la vie, des instincts et des impulsions, de la transformation de l'homme naturel en un homme rationnel". "Lorque la morale puritaine exhorte les fidèles à mener une vie bien ordonnée, elle ne fait que reproduire mot pour mot les préceptes de la morale thomiste, et les vertus bourgeoises qu'elle prêche sont exactement les mêmes que celles dont nous trouvons l'éloge chez les scolastiques" (ibid., pp 243/244). Ce qui apparaît favorable au capitalisme chez les puritains semble donc emprunté au thomisme et aux scolastiques.
La raison première de cette divergence entre Weber et Sombart, Raymond Aron croit la trouver "dans le fait qu'ils n'utilisent pas la même définition du capitalisme". Pour Weber, le "capitalisme", c'est essentiellement le capitalisme occidental, le capitalisme "s'oppose à une économie qui tend, avant tout, à la satisfaction des besoins. Le capitalisme serait le système qu'anime un désir de gains sans limite, qui se développe et progresse sans terme, économie d'échanges et d'argent, de mobilisation et de circulation des richesses, de calcul rationnel. Les caractères sont moins dégagés par une comparaison avec les autres civilisations que saisis intuitivement dans leur ensemble" (Raymond Aron, op. cit., p.114). Autre raison probable de cette divergence: les convictions des deux auteurs. Max Weber est un protestant libéral qui croit réconcilier protestantisme et capitalisme dans l'esprit de l'homme allemand en distinguant une morale de la conviction obéissant aux impératifs de la foi et une morale de la responsabilité soumise aux impératifs de l'action. La morale de la conviction délimite un domaine religieux de plus en plus intériorisé (ce qui est bien conforme à l'essence du protestantisme), la morale de la responsabilité un domaine économique abandonné au capitalisme (et un domaine politique soumis à la raison d'Etat). A l'inverse, Sombart est un anti-capitaliste d'obédience marxiste et, plus tard, d'obédience luthérienne.
Vertus bourgeoises et éléments héroïques de la psyché européenne
Après avoir passé en revue les diverses manifestations nationales de l'esprit capitaliste (Italie, Espagne, France, Allemagne, Pays-Bas, Grande-Bretagne, USA), Sombart s'intéresse à l'évolution de celui-ci. (Pour Sombart, nous le savons, l'évolution du capitalisme est intimement liée à celle de l'esprit capitaliste).
- Dans un premier temps, les "vertus bourgeoises" se joignent à l'esprit d'entreprise et à l'amour de l'or (caractéristiques mentales des peuples européens) pour donner naissance à l'entrepreneur capitaliste d'abord tout à la fois héros, marchand et bourgeois. Puis, les "vertus bourgeoises" l'emportent peu à peu sur l'élément héroïque. A cela plusieurs raisons: le développement des armées professionnelles, l'auto-rité des forces morales, le mélange des sangs (cf. "Le bourgeois", pp 339/340).
Deux époques se succèdent alors:
- celle du "bourgeois vieux-style" tenu en laisse, selon l'expression même de Sombart, par les mœurs et une morale d'inspiration chrétienne;
- celle de l'"homme économique moderne" (à partir de la fin du XIXème siècle) qui ne connaît plus ni entraves, ni restriction.
Sombart aborde enfin un délicat problème de causalité: le capitalisme est-il l'émanation ou la source de l'esprit capitaliste? Selon Sombart, on ne peut opposer l'esprit capitaliste au capitalisme dont il est partie intégrante mais on peut en revanche l'opposer à l'"organisation capitaliste" (qui comprend tous les éléments constitutifs du système capitaliste qui ne peuvent être rangés dans la catégorie "esprit"). "Sans l'existence préalable d'un esprit capitaliste (ne fût-ce qu'à l'état embryonnaire), l'organisation capitaliste n'aurait jamais pu naître" (ibid., p.328): une création ne peut préexister à son créateur mais elle peut acquérir une certaine autonomie et agir en retour sur son créateur. Ainsi le capitalisme, création de l'esprit capitaliste, est devenu une des sources (et "non la moins importante" ajoute Sombart) de cet esprit.
Deux dangers menacent désormais l'esprit capitaliste: la "féodalisation" ("l'enlisement dans la vie de rentier ou l'adoption d'allures seigneurales") et la bureaucratisation croissante des entreprises. "Peut-être, conclut Sombart, assisterons-nous aussi au crépuscule des dieux et l'or sera-t-il rejeté dans les eaux du Rhin" (ibid., p.342). Voici un rêve auquel le "socialiste" Sombart s'efforce de donner quelque consistance ...
Sombart et le socialisme allemand
Après s'être consacré à l'étude du capitalisme, Sombart devient en 1934 le porte-parole d'un "socialisme allemand". Mais, quel est le contenu de ce socialisme allemand à la Sombart?
Sombart s'efforce de donner une définition du socialisme. Après avoir passé en revue les diverses acceptions courantes du terme et porté sur chacune d'elles un jugement, Sombart définit le socialisme comme un "normativisme social". "J'entends par là un état de vie sociale où la conduite de l'individu est déterminée en principe par des normes obligatoires, qui doivent leur origine à une raison générale, intimement liée à la communauté politique, et qui trouvent leur expression dans le "nomos" (Werner Sombart "Le socialisme allemand", Payot, paris 1938, p.77). "On n'est vraiment socialiste que lorsqu'on considère comme nécessaire que la conduite de l'individu soit soumise, dans ses manifestations extérieures, à des règles générales" (ibid.).
Sombart distingue ensuite les variétés de socialisme:
- d'après la nature de l'ordre socialiste imaginé: "du point de vue de l'espace ou de la quantité", ce peut-être un "socialisme total ou partiel"; "du point de vue du temps" "un socialisme absolu ou relatif"; "du point de vue de la forme", "un socialisme de l'égalité ou de l'inégalité", ou bien "un socialisme de l'individu ou de l'ensemble", ou encore "un socialisme méca-nistique, amorphe, espacé, abstrait, pensé, international, social" ou "un socialisme organique, morphique, technique, concret, imaginé, par classes sociales, national, étatique";
-
- d'après les fondements de l'ordre socialiste: socialisme évolutionniste ou révolutionnaire, socialisme sacré ou profane;
- d'après la mentalité en vertu de laquelle l'ordre socialiste est construit (mentalité mercantile ou héroïque).
Un socialisme anti-économiste
Sombart, lorsqu'il définit le socialisme et les variétés de socialisme, veut faire œuvre scientifique mais on sent qu'il prend déjà parti et qu'il dessine à gras traits les contours de "son" socialisme. Peu après avoir défini le socialisme, Sombart écrit: "Etant donné que la libération des forces sociales avait eu pour principal effet de mettre au premier plan l'économie et de subordonner toute l'existence de la société à ses lois, le mouvement socialiste moderne est naturellement dirigé surtout contre la primauté de l'économie. Le cri de guerre du socialisme fut: débarassons-nous de l'économie!" (ibid., p.81). On comprend déjà que le socialisme de Sombart sera essentiellement un anti-économisme. Lorsque Sombart énumère les diverses variétés de socialisme, à l'évidence il porte son choix sur certaines d'entre elles. Le socialisme qu'il prône ne peut être que "partiel", "relatif", inégalitaire, "organique, concret, national, étatique ...": il ne peut être que révolutionnaire (ou volontariste, c'est-à-dire "engendré par la liberté, par un acte créateur") et profane -ici, Sombart dévoile dans sa critique du socialisme chrétien une de ses principales sources d'inspiration: Martin Luther lui-même, pour qui l'Evangile n'enseigne en rien la façon dont on doit gouverner les hommes et administrer les biens matériels (cf "Contre les paysans pillards et meurtriers")-; Sombart se prononce enfin pour un socialisme "héroïque" -Sombart reprend ici les thèmes développés dans son livre de guerre ("Marchands et héros", 1915). Deux conceptions de la vie s'opposent: d'un côté, la conception mercantile (qualifiée pendant la guerre d'"anglo-saxonne") qui vise au "plus grand bonheur pour le plus grand nombre" (le bonheur étant "le bien-être dans l'honnêteté") et qui cultive le "pacifique côte-à-côte des commerçants" (Sombart vitupère ici les "vertus bourgeoises" qu'il avait froidement examinées dans "Le Bourgeois"); de l'autre côté, la mentalité héroïque considère la vie comme une tâche et cultive les "vertus guerrières" (cette mentalité se serait incarnée dans l'Allemagne luthérienne et prussienne). Le "socialisme allemand" de Sombart apparaît comme la traduction à tous les niveaux, notamment au niveau économique, d'une mentalité héroïque dominante: le service de la communauté, de l'Etat et du peuple prime le sevice de soi-même.
Sombart précise le sens qu'il donne au terme "socialisme allemand": " (...) l'on pourrait entendre par socialisme allemand des tendances socialistes répondant à l'esprit allemand, qu'elles soient d'ailleurs représentées par des Allemands ou des non-Allemands. Dans ce sens, on pourrait considérer comme socialisme pensé à l'allemande un socialisme qui serait relativiste, adapté à toute la nation, volontariste, profane, païen, et qu'on pourrait -à fortiori- qualifier de socialisme national. Sous le terme général de socialisme national, on peut entendre un socialisme qui tend à se réaliser dans une association nationale, qui part de l'idée que socialisme et nationalisme sont parfaitemebt adaptables" (ibid., pp. 139/140). Sombart précise encore: "Pour moi, socialisme allemand veut dire socialisme pour l'Allemagne, c'est-à-dire un socialisme qui vaut seulement et exclusivement pour l'Allemagne" (ibid.), parfaitement adapté au corps, à l'âme et à l'esprit de la Nation allemande.
Un socialisme réactionnaire?
On peut dire du socialisme de Sombart qu'il est "réactionnaire":
- en raison de ses objectifs: le socialisme allemand aspire à la "culture" qui est appelée à abolir "l'état actuel de la civilisation". Il faut pour cela briser la primauté de l'économique et des biens matériels qu'a instauré l'âge économique et se libérer de la foi dans le progrès qui obnubile l'âme allemande. Le socialisme de Sombart se veut donc une rupture avec la modernité occidentale (l'"âge économique") et l'idée même de progrès.
"Ce que j'appelle "socialisme allemand" écrit Sombart, signifie -exprimé d'une façon négative- l'abandon de tous les éléments de l'âge économique" (ibid. p.60) "sortir l'Allemagne du désert de l'âge économique, telle est la tâche que le socialisme allemand estime avoir à remplir" (ibid., p.180). Ce qui caractérise l'âge économique c'est que les mobiles économiques, les mobiles matériels "ont prédominé toutes les autres aspirations" (la théorie matérialiste de l'histoire apparaît aiinsi valable pour cette périàde, "mais pour cette période seule"); "(...) c'est la prédominance des intérêts économiques, en tant que tels, qui marque l'époque de son empreinte -étant bien entendu, naturellement, que le caractère de cette empreinte est déterminé par le caractère même de l'économie, en l'espèce l'économie capitaliste" (ibid., p;.18). L'âge économique a conduit à l'explosion démographique de l'Europe, à l'augmentation de la durée de vie moyenne, à l'accroissement considérable de la consommation et de la production des biens matériels. L'Europe industrielle est devenue une ville immense de plusieurs centaines de millions d'habitants, les autres pays du globe formant une banlieue autour de cette ville. Les rapports des pays entre eux furent bouleversés. En Europe, les sociétés et les formes de vie ont été bouleversées: Sombart constate la dissolution des communautés traditionnelles et la fin de l'enracinement, les Européens ne formant plus que des masses d'individus "errant ça et là"; notre existence a été soumise à un processus d'intellectualisation (fin de l'initiative, du travail intelligent, du métier), de matérialisation (c'est-à-dire de mécanisation) et d'égalisation (tendance à l'uniformité). La vie publique elle aussi a été bouleversée (un seul fondement et une seule mesure de la valeur: la richesse; une seule hiérarchie: celle qui se fonde sur le capital et le revenu; des partis de classe sont apparus et l'Etat s'est mis au service des intérêts économiques). Enfin, toute vie spirituelle a disparu ("la vie humaine est devenue vide de sens").
Le socialisme allemand de Sombart, qui est une réaction contre cet état de fait, veut opérer un retour vers un ordre humain (c'est-à-dire un ordre dans lequel l'état de péché qui définit l'homme depuis la chute n'est pas nié, un ordre dans lequel l'homme peut de nouveau servir Dieu). En condamnant l'âge économique et ses manifestations diverses, Sombart apparaît proche d'autres "socialistes allemands" les plus radicaux (les nationaux-bolchéviques) condam-naient la "fuite dans le Moyen-Age", la "tendance anti-industrielle et anti-technique" (et le christia-nisme) qui caractérisaient l'idéologie des frères Strasser et de Sombart; ils repoussaient un "socialisme allemand" si ouvertement réactionnaire et se voulaient résolument modernes: ils acceptaient la société industrielle et le pouvoir de la technique les fascinait.
- Le socialisme de Sombart apparaît réactionnaire en raison de ses références luthériennes.
Ce qui s'est passé en Europe occidentale et en Amérique depuis la fin du XVIIIème siècle est pour Sombart l'œuvre de Satan. Luther jetait son encrier sur Satan venu le tenter, Sombart, émule de Luther, utilise sa plume pour dénoncer l'œuvre de Satan: l'âge économique ...
De Luther et des luthériens, Sombart a retenu l'idée que l'autorité politique est directement instituée par Dieu. Luther a justifié l'autorité politique par le péché originel, par la corruption dont il est cause sur terre; pour Sombart, le "socialisme allemand" exige un état fort car "il met le bien de tous au-dessus du bien de l'individu" et "parce qu'il estime qu'il a à faire à l'homme pécheur". Au sein de la société, affirme Luther, "chaque homme trouve sa vocation dans les obligations ponctuelles de son état (Beruf), dans la réalisation de la charge que Dieu lui a confiée, domaine dans lequel il reste soumis à l'autorité séculière" (Jacques Droz, "Histoire des doctrines politiques en Allemagne", PUF, que sais-je?, Paris 1978, p.22). Sombart rejoint ici aussi l'opinion de Luther. Enfin, pour Luther comme pour le luthérien Sombart, la division de l'humanité en peuples et en Nations correspond à un plan divin: le peuple (Volk) est un organisme d'origine divine appelé à remplir une mission au sein de l'humanité (idée reprise et développée par le luthérien Herder).
Etre un peuple de l’esprit, de l’action et de la variété
Pour remplir la mission que Dieu lui a confiée au milieu des autres peuples, le peuple allemand doit, selon Sombart, être toujours plus un peuple de l'esprit, de l'action et de la variété.
Le luthérianisme conduit donc Sombart à l'étatisme (dans sa version prussienne), au rationalisme -les germanistes français ont révélé le lien très étroit qui unissait le luthérianisme au nationalisme allemand (Jacques Droz, "Histoire des doctrines politiques en Allemagne", Edmond Vermeil "l'Allemagne Essai d'explication", etc.) mais ils l'ont évidemment, caricaturé-, au "corporatisme" (le terme de "corporatisme" n'est peut-être pas très approprié: il ne s'agit pas ici en effet de la Corporation mais du "stand", l'état, voir plus loin).
Sombart est un nationaliste mais il apparaît en retrait par rapport à d'autres auteurs nationalistes, notamment par rapport aux "völkische" stricto sensu (ceux qui mettent l'accent sur la dimension raciale-biologique du peuple): le peuple n'est pas conçu à la manière völkisch comme race, le peuple pas plus que la Nation ou l'Etat ne sont assimilés à des organismes naturels (mais plutôt, à des entités spirituelles -l'organicisme au sens strict est rejeté comme biologisme.
Il faut remarquer que le luthérianisme professé par Sombart l'est aussi par des "socialistes allemands" proches de lui: Otto Strasser, les membres du groupe constitué autour de la revue "die Tat" notamment Hans Zehrer et Léopold Dingräve (surnom de Wilhelm Eschmann).
Le socialisme de Sombart est un anti-judaïsme: "(...) ce que nous avons défini comme étant l'esprit de l'ère économique est justement, à beaucoup d'égards, l'esprit juif. Et, dans ce sens, Karl Marx a certainement raison quand il dit que "l'esprit pratique des Juifs est devenu l'esprit pratique des peuples chrétiens" et que "les Juifs se sont émancipés dans la mesure où les chrétiens sont devenus juifs" et encore que "la nature réelle des Juifs s'est concrétisée dans la société bourgeoise"." ("le socialisme allemand" pp. 215/216). Le capitalisme incarne l'esprit juif, il appartient au "socialisme allemand" d'incarner l'esprit allemand.
Le socialisme prolétarien est un capitalisme à rebours
Par sa nature même, le socialisme allemand" s'oppose au socialisme prolétarien. Le socialisme prolétarien est "un capitalisme à rebours, le socialisme allemand est un anti-capitalisme. L'œuvre libératrice du socialisme allemand ne se limite pas à une classe ou à un autre groupe de la populaton mais s'étend à celle-ci toute entière, dans toutes ses parties (...). Le socialisme allemand n'est pas un socialisme prolétarien, petit-bourgeois ou "partiel", c'est un "socialisme populiste" (ibid.p.180). Il embrasse le peuple entier dans tous les domaines de sa vie.
Pour Sombart, le socialisme prolétarien est "le fils authentique" de l'ère économique. Il en a toutes les tares. Dans son livre sur "Le socialisme allemand", Sombart définit rapidement le contenu idéologique du socialisme prolétarien et critique ses fondements pseuod-scientifiques: il lui reproche notamment d'avoir, avec sa théorie de l'histoire, transformé "les traits particuliers de l'ère économique en traits généraux ce l'histoire de l'humanité" (ibid. p.130). Sombart ne fait que reprendre, pour l'essentiel, les thèses qu'il développa dans "Le socialisme prolétarien" en 1924.
A l'époque où Marx fit ses débuts das la vie active (entre 1840 et 1850), écrit Sombart, "le capitalisme représentait un chaos, quelque chose d'informe, dont il était impossible de prévoir avec certitude les effets et les conséquences. Celui qui en abordait l'étude, guidé par l'idée de l'évolution (et telle fut précisément l'idée directrice de Marx), pouvait assigner à son devenir tous les buts qu'il voulait. Il pouvait y voir en germe les choses les plus magnifiques, prétendre que ce chaos était fait pour enfanter un monde de merveilles, un monde idéal, dont le capitalisme serait la phase préalable, la condition nécessaire" ("L'apogée du capitalisme", pp. 15/16). On comprend ainsi les "bizarres prédictions" de Marx "relatives à l'augmentation illimitée de la productivité, à la "concentration" générale des industries, à l'écroulement final et inévitable de l'édifice économique, etc.". Ainsi se justifiait l'optimisme de Marx. Mais, constate Sombart, le capitalisme nous est désormais connu: "Nous ne sommes plus assez naïfs et ignorants pour adorer le capitalisme comme une Sainte Vierge qui porte dans ses flancs le Rédempteur" (ibid, p.17).
Se mettre à l’écoute dela “Volkheit”
Le "socialisme allemand" exige un Etat fort. Cet Etat fort s'identifie à l'Obrigkeitstaat de tradition luthérienne, dont le chef, le Prince, n'est responsable que devant Dieu, et que Sombart veut, comme Goethe, à l'écoute non du peuple mais de la "populité" (Volkheit) -sur ce dernier point, Sombart démarque Wilhelm Stapel, auteur protestant d'une "théologie du nationalisme" (dont le titre exact est: "L'homme d'Etat chrétien. Théologie du nationalisme", paru en 1932). Stapel écrivait: "Les lois justes ne doivent pas correspondre à la "volonté du peuple", mais à la "volonté de la Volkheit". Car le peuple ne sait jamais d'une volonté claire ce qu'il veut, mais la Volkheit est raisonnable, constante, pure et vraie."- Sombart n'est pas le seul à préconiser un renouveau de l'Obrigkeitstaat, d'autres en Allemagne préconisent aussi (des représentants de la jeune génération parmi lesquels ses disciples de "die Tat").
L'étatisme de Sombart n'est pas fondé sur la seule doctrine de Luther. Sombart cite Hegel et prétend se rattacher à "la conception allemande de l'Etat" (l'Etat y est envisagé comme une "union idéale" par oppo-sition à la conception rationnelle et individualiste) à laquelle sont restés fidèles les conservateurs prussiens et les socialistes allemands (Lorenz von Stein, Rodbertus, Lassalle).
L'Etat allemand qu'il imagine devrait s'inspirer de l'exemple de l'Eglise catholique ou de l'armée prussienne et, tout en étant fort, il devrait être fédératif et décentralisé.
"Le socialisme allemand désapprouve (…) la forme qu'a revêtue la société à l'époque économique". Il aspire à un ordre social "corporatif" ou "organique" ou "populaire", notions qui paraissent s'unir toutes en celle de répartition par états"("le socialisme alle-mand", p.240). Sombart établit "une distinction catégorique entre deux notions d'état: la notion sociale et la notion politique". Dans le premier sens, l'état est un "tout partiel" qui, avec d'autres "touts partiels", constitue "l'organisme social". "La notion politique de l'état-classe est par contre celle qui entend par état un groupe qui est reconnu comme tel par l'Etat-pouvoir politique, qui y est incorporé et qui en a reçu des missions déterminées. Ces missions sont principalement les suivantes: (1) entretien d'une mentalité particulière, d'un esprit particulier (…); (2) renforcement du principe de l'inégalité dans l'Eta-pouvoir politique par l'octroi à l'état-classe de privilèges déterminés ou le retrait de droits déterminés; (3) exercice de fonctions dans la vie po-litique et sociale." (ibid, p.242). Pour Sombart, c'est dans un sens politique qu'il convient d'entendre la notion d'état.
Cette conception de l'état procède à la fois du "Beruf" luthérien et du "Stand" romantique remis à l'honneur par l'école viennoise d'Othmar Spann. L'idée d'état connaît alors un vif succès dans les milieux nationalistes allemands, particulièrement chez ceux qui s'y veulent "socialistes allemands".
La technique doit se plier au nomos
Nous vivons dans l'âge technique, constate Sombart. "Si notre époque est celle de la technique, c'est qu'elle a oublié les buts pour les moyens, autrement dit, qu'elle a vu le but final dans la création artificielle des moyens". Tout le monde admire les produits d'une technique perfectionnée "sans se demander quels buts seront ainsi atteints, sans apprécier les valeurs qui seront ainsi produites" (ibid. p.276). "A quel point la technicisation de notre époque est avancée, on le voit par la façon dont le culte de la technique s'étend à tous les domaines de notre culture et les marques tous de son empreinte" (ibid, p.277). Face à cet état de fait, comment réagir? Sombart rejette les "théories fatalistes" ("la technique moderne permet aux hommes de rationaliser la terre"): le "socia-lisme allemand" domestiquera la technique et la pliera au nomos! Sombart préconise, outre un certain nombre de mesures policières, un contrôle de l'office des Brevets sur la valeur de l'invention puis un contrôle sur l'application de l'invention; la recher-che scientifique sera enlevée à l'initiative privée et confiée à un institut d'Etat; les inventeurs seront rémunérés sans tenir compte de la valeur com-merciale ou industrielle de l'invention, "ainsi la fièvre des inventeurs tombera".
Le "socialisme allemand" doit encourager une "bonne consommation" qui entretienne "des formes de vie simples et naturelles". Sombart rejette la culture prolétarienne et lui préfère une culture "bourgeoise" (c'est-à-dire une certaine aisance) et paysanne (bien enracinée et variée). Il rejette aussi le "luxe capitaliste du bourgeois" et réserve l'éclat et la splendeur à l'Etat.
La consommation en Allemagne est pour Sombart mal organisée d'un point de vue quantitatif et qualitatif. Beaucoup de défauts de la consommation actuelle dépendent de certaines conditions de la vie moderne (urbanisation, notamment). L'Etat doit donc intervenir pour amener les masses à modifier leur consommation.
Le "socialisme allemand" vise aussi à l'orga-nisation de la production. Sombart veut subs-tituer une économie planifiée à l'économie "libre" (c'est-à-dire abandonnée à l'arbitraire des individus). Remarque préalable: "économie plani-fiée" ne signifie pas pour Sombart "collectivisme". Dans l'économie qu'il envisage "la propriété privée et la propriété collective subsisteront côte à côte" (éco-nomie mixte) mais la propriété privée sera "une propriété donnée en fief" (ibid., p.346). Opposé au collectivisme doctrinaire, Sombart ne manifeste cependant pas un respect exagéré pour la propriété privée: pendant la Grande Crise, il réclame la création d'une "propriété sociale" (Louis Dupeux, op. cit., p.15).
L’économie planifiée selon Sombart
Une véritable économie planifiée, d'après Sombart, se caractérise par:
- la totalité "c'est-à-dire qu'il n'y a économie planifiée que lorsque le plan embrasse l'ensemble des exploitations et des phénomènes économiques à l'intérieur d'un territoire important" ("le socialisme allemand", p.302). Mais le plan peut comptendre des zones libres "où l'individu pourra faire et laisser faire ce qui lui plaira".
- "l'unité, c'est-à-dire un centre unique d'où émane le plan" (ibid., p.303). L'économie doit être soumise au "Führerprinzip" et au-dessus des chefs d'entreprise, il doit exister une direction suprême: le "conseil suprême économique" (le centre unique de décision ne peut être que l'Etat, ou une émanation de celui-ci, c'est dire qu'une économie planifiée ne peut être qu'une économie nationale. Mais l'économie nationale doit être nécessairement planifiée si on veut qu'elle assure l'unité de la Nation).
- la variété: le plan doit tenir compte de la dimension des domaines économiques; de la structure sociale d'un pays donné; du caractère national, du niveau culturel et de toute l'histoire du pays. Les diverses branches de l'économie doivent être organisées différemment et cette organisation varie à l'intérieur même de chaque branche. L'économie planifiée doit aussi avoir des moyens d'action variés.
C'est ainsi que l'économie planifiée nationale cor-respond à cette "économique qu'Aristote opposait à la chrématistique"." (ibid., p.306).
Autarcie et autarchie
A l'économie mondiale en crise, Sombart oppose l'autarcie. "Autarcie ne signifie pas, bien entendu, qu'une économie nationale doive devenir indé-pendante d'une façon intégrale (…), qu'elle doive renoncer à toute relation internationale quelle qu'elle soit (…). En considérant les faits, je qualifierais déjà d'autarcique une économie nationale qui ne dépend en aucune façon de ses relations avec les peuples étrangers, c'est-à-dire qui n'est pas obligée de recourir au commerce extérieur pour assurer sa propre existence (…)" (ibid., p.310). Mais "l'autarchie est plus importante que l'autarcie. Or l'autarchie nationale réside dans le fait que les catégories où nous pensons les relations internationales de l'avenir ne sont plus celles du commerce libre -où l'on trouvait, à la première place, la funeste clause de la nation la plus favorisée- mais celle d'une politique nationale planifiée: traités de commerce, unions douanières, droits préfé-rentiels, contingentements, interdictions d'impor-tation et d'exportation, commerce de troc, principe de la réciprocité, monopole du commerce de certains articles, etc." (ibid., p.348).
Sombart s'en prend à la grande industrie: son socialisme doit favoriser l'économie paysanne et artisanale et donc les classes moyennes. A l'opposé du socialisme prolétarien, le "socialisme allemand" met au centre de sa sollicitude non pas le prolétariat, mais les classes moyennes qui sont le plus aptes à défendre les intérêts de l'individu comme de l'Etat: c'est uniquement dans les exploitations paysannes et artisanales que l'hommes ayant une activité économique trouve la possibilité de se développer pleinement, de donner son véritable sens au travail, forme la plus importante de la vie humaine" (ibid., pp.318/319). Le "socialisme allemand" veillera au développement de l'activité artisanale, à la réorganisation du pays et s'opposera à l'indus-trialisation croissante de l'agriculture.
Domaine de l’industrie et Plan
Dans le domaine de l'industrie, Sombart préconise, outre la soumission des entreprises aux objectifs du plan:
- la socialisation de certains secteurs stratégiques de l'économie et un contrôle de l'Etat sur les entreprises abandonnées au capitalisme (notamment un contrôle du crédit);
- l'amélioration des conditions de travail et la fixation des salaires ouvriers par l'Etat;
- la fin de la concurrence sauvage et de la "con-currence suggestive" (la publicité); en revanche "la concurrence matérielle ne doit pas être exclue des cadres de l'économie dirigée";
- l'abandon du principe de rentabilité remplacé par l'"esprit ménager"
- une "production permanente et continue": "nous sommes maintenant mûrs pour une économie stationnaire et nous renvoyons l'économie "dynamique" du capitalisme là où elle avait son origine: au diable". "En stabilisant nos méthodes de production, de transport et de vente, nous supprimons une des causes des arrêts et troubles périodiques du processus économique et, par conséquent, le danger toujours menaçant du chômage, la pire des plaies de l'ère économique" (ibid., pp.340/341).
Lutte contre le chômage et travaux publics
L'Etat doit lutter contre le chômage et en même temps entreprendre la transformation de l'économie nationale. Pour lutter contre le chômage, écrit Sombart, l'Etat doit se créer une capacité d'achat supplémentaire qu'il utilisera afin d'entreprendre ou d'encourager des travaux convenables (c'est-à-dire des travaux "dont la réalisation peut entraîner une augmentaton, notamment une augmentation durable de la productivité nationale, plus exactement encore une augmentation du volume des marchandises"; ces travaux doivent être des travaux durables ou entraîner des travaux durables qui contribuent à un développement permanent de l'organisme produc-teur"; ces "travaux doivent ouvrir ces sources intaris-sables au sein de l'économie nationale allemande, afin de la rendre plus productive et susceptible de devenir indépendante"(ibid., pp 356/357).
Pour Sombart, la colonisation agricole semble le meilleur moyen de ranimer l'économie allemande et d'entraîner une transformation de celle-ci et de la société elle-même dans le sens voulu par le "socialisme allemand".
Sombart reprend ici à son compte le programme d'Heinrich Dräger et de Gregor Strasser qu'il avait approuvé et soutenu en 1932. Heinrich Dräger, fabricant de Lübeck et fondateur de la "Société d'Etudes pour une économie monétaire et une économie de crédit" (à laquelle collaborait Ernst Wagemann), défendait l'idée de "la création de travail par la création de crédit productive" (cf. Jean-Pierre Faye, "Langages totalitaires", Hermann, Paris, 1973, pp.647/648). Dräger rédigea pour Gregor Strasser (alors n°2 du Parti nazi et dirigeant de son aile gauche), la seconde partie du "programme économique de la NSDAP" publié en août 1932 sous le titre de "Sofortprogramm". Ce texte proposait un programme de création de travail de grande envergure mené sous l'égide de l'Etat et accompagné de réformes de structure. Il prévoyait, à côté de la modernisation des villes et de la construction d'habitats sains, le partage des grandes propriétés foncières non rentables en vue de l'établissement de paysans sans terre et l'exécution de travaux nécessaires au développement de l'économie rurale (ibid., pp 656 et 672).
En guise de conclusion …
Il est impossible de dissocier le scientifique Sombart, sociologue, économiste et historien de l'économie, du Sombart militant, marxiste puis "socialiste allemand" et nationaliste luthérien. Le premier étudie froide-ment le capitalisme et l'esprit capitaliste, le second les condamne en bloc et bâtit une alternative. Les deux se complètent. Pendant la Grande Guerre, "Marchands et héros" fait écho au "Bourgeois", Sombart y oppose au type humain bourgeois, porteur du capitalisme, le héros porteur de ce qu'il définira plus tard comme "socialisme allemand". Le "socialisme allemand" fait écho pendant la Grande Crise au maître-ouvrage de Sombart, "le capitalisme moderne" achevé peu avant.
Sombart a probablement influencé (et subi l'influence) de nombreux autres "socialistes allemands". Sombart avoue d'ailleurs cette parenté: le socialisme dont il se réclame, il le voit représenté en Allemagne par de nombreux nationaux-socialistes (sans doute pense-t-il plus particulièrement à Gregor Strasser), "par plusieurs adhérents à l'ancien Front Noir parmi lesquels se distingue Otto Strasser, auteur d'un livre plein de pensée, "Der Aufbau des deutschen Sozialismus" (1932), ainsi que par plusieurs isolés, comme les partisans de l'ancien milieu du "Tat" (de l'"Action"): Eschmann, Fried, Wirsing, Zehrer, etc., par des hommes comme August Winnig, August Pieper, et beaucoup d'autres encore" ("Le socialisme allemand", p.140).
Mais, les convictions personnelles de Sombart, et plus encore: son ton, le rapprocherait plutôt d'un autre courant situé nettement plus "à droite" et dans lequel on peut ranger Oswald Spengler; Wilhelm Stapel, directeur de la revue "Deutsches Volkstum" (Hambourg); Karl-Anton Prinz Rohan, directeur de l'"Europaïsche Revue"; Othmar Spann, idéologue de l'"austro-fascisme"; Edgar Jung, animateur du "Münchener Kreis", conseiller de von Papen; Heinrich von Gleichen, animateur et président du "Herrenklub"; voire Julius Evola. etc. Avec eux Sombart partage l'inspiration chrétienne, une idée de la race (et du Volk) dégagée de la biologie, une conception de l'Etat autoritaire éventuellement ditrigé par une aristocratie de naissance, une conception "universaliste" du corps social et la vision d'un ordre social fondé sur la hiérarchie des "Stände" qiu n'est pas sans évoquer, tout nuance péjorative mise à part, l'ordre des castes, etc. Un crédo qui s'oppose point par point au crédo du nationalisme populaire (Völkisch) qui s'est pourtant inspiré de Sombart pour construire sa doctrine économique.
Thierry MUDRY.
(article paru dans la revue “Orientations”, Wezembeek-Oppem, n°12, été 1990/hiver 1990-91).
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jeudi, 05 novembre 2009
Paganisme et nature chez Hermann Löns
Paganisme et nature chez Hermann Löns
Recension: Martin ANGER, Hermann Löns. Schicksal und Werk aus heutiger Sicht, G.J.Holtzmeyer Verlag, Braunschweig, 1986, 190 p., 32 ill., ISBN 3-923722-20-6.
- Thomas DUPKE, Mythos Löns. Heimat, Volk und Natur im Werk von Hermann Löns, DUV/Deutscher Universitäts-Verlag, Wiesbaden, 1993, 381 p., DM 64,
ISBN 3-8244-4140-3.
- Thomas DUPKE, Hermann Löns. Mythos und Wirklichkeit, Claasen, Hildesheim, 1994, 224 p., 20 ill., DM 38, ISBN 3-546-00086-2.
Dans sa thèse de doctorat sur Löns, Dupke récapitule toutes les thématiques qui font de Löns un précurseur des mouvements naturalistes allemands (Wandervögel, écologistes, adeptes de l'amour libre). La thématique de l'amour libre procède d'une volonté de sensualiser la vie, d'échapper à la rationalité bureaucratique et industrielle. Amour libre et sentiment de la nature vont de paire et s'opposent à la Ville, réceptacle de toutes les laideurs. Löns fuit dans un espace sans société, où les règles de l'urbanité n'ont pas de place.
Le rapport paganisme/christianisme transparaît clairement: les paysans de la Lande de Lünebourg sont certes devenus de “bons chrétiens”, mais en surface seulement; dans leur intériorité, ils sont restés les mêmes, “ils secouent les liens que leur avait imposés la religion des chrétiens”. Mais, chez Löns, qui n'est pas à proprement parler un auteur néo-païen Dieu n'est pas remis en question, mais, face aux marodeurs qui écument la région, il devient, pour les paysans armés (les Wehrwölfe) un Dieu de la vengeance, comme dans l'Ancien Testament, mais aussi comme dans l'idéal païen-germanique de la Feme. Löns expose un conglomérat païen et vétéro-testamentaire, où il n'y a aucune séparation nette entre les deux héritages.
Pour Löns, le paysan de la Lande est un être éternel, sans histoire, inamovible face aux changements: il est l'Urtyp (le type originel) de l'“être du Volk”. Le paysan selon Löns est l'idéal d'un homme de communauté qui sélectionne sans état d'âme les plus forts, pour que survive sa communauté, matrice du peuple. L'idée dérive du projet eugéniste d'Otto Ammon, cherchant à préserver et à valoriser les classes rurales dans l'Allemagne en voie d'industrialisation et d'urbanisation. Cet idéal dérive également, constate Dupke, d'une triple lecture de Nietzsche, Lagarde et Langbehn. De Nietzsche, Löns a retenu les tirades contre les “Philistins”, imbus de leur “culture”. De Lagarde, l'idée d'une renaissance germanique, d'un retour aux valeurs originelles de la Germanie et des rites païens, capables de fortifier un christianisme régénéré et germanisé (Lagarde n'est pas païen!). De Langbehn, l'idée du paysan comme “meilleur Allemand”, par sa simplicité, sa frugalité et sa forte capacité d'intuition.
Le contexte dans lequel évolue Löns, qui est celui de toute la contestation allemande de 1890 à 1914, débouche sur deux perspectives pratiques: l'Heimatkunstbewegung (= le mouvement de l'art du terroir) et sur la fondation de “parcs naturels”. Le 30 mars 1898, le parlement prussien vote une mention préconisant la création de réserves naturelles sur le modèle de la loi américaine de 1872 (pour le “Yellowstone Park”). Löns a soutenu cette initiative, avec le botaniste Hugo Conwentz, mais était sceptique; les parcs ne deviendront-ils pas zones récréatives pour citadins, les dimanches ensoleillés? Pour Löns, la protection de la nature et du patrimoine rural ne devait pas se limiter à ces parcs, mais être généralisée à tout le pays, en tous domaines (Robert Steuckers).
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lundi, 02 novembre 2009
Statthalter des Geheime Deutschlands
Januar 2004
Statthalter des Geheimen Deutschlands
Mit Stefan George verschied vor 70 Jahren eine elitäre Jahrhundertpersönlichkeit der deutschen Dichtung
In der Person Stefan Georges (1868-1933) erwuchs zuerst dem literarischen Naturalismus, der sich dem Häßlichen und Gewöhnlichen zuwandte, und dann der modernen Massendemokratie ein Kritiker von unerbittlicher Strenge. Georges Kontrastprogramm zielte in gemeißelter Sprache auf eine Vergöttlichung der Kunst und die Überwindung des liberalkapitalistischen Dekadenzsystems durch die Vision eines Geistesadels und eines mythenumrankten neuen Reiches. Bis heute hat der George-Kreis und dessen Kraftquell des Geheimen Deutschlands nichts von seiner Faszinationskraft eingebüßt.
Als Ausdruck der europäischen Zeitkrise hatte sich im letzten Drittel des 19. Jahrhunderts der Naturalismus zu einer machtvollen Kunstströmung entwickelt. Mit der drastischen Wiedergabe des Lebens und seiner Spannungen und Schattenseiten verbanden viele Naturalisten eine Anklage der Verhältnisse im Zeitalter der Hochindustrialisierung. Aus dem Widerwillen gegen die Elendsschilderungen des Naturalismus mit ihrer gewollt glanzlosen und alltagsnahen Sprache erwuchs die Gegenbewegung der Symbolisten und Neuromantiker. Ein neues Kunstwollen in Sprache und Motivik sollte die Alltagsniedrigkeit hinter sich lassen und in einer symbolhaltigen Sakralsprache die Ehre der Kunst und der Kultur wiederherstellen.
Anreger Nietzsche
Bedeutender Anreger der Symbolisten und Neuromantiker war kein Geringerer als Friedrich Nietzsche (1844-1900). Mit seinem Hauptwerk »Also sprach Zarathustra« (1883/84) schlug der Künder des Übermenschen seine Zeitgenossen in den Bann. Auch der junge Stefan George ließ sich von der religiös-erhabenen, kunstvoll durchformten Dichtersprache gefangennehmen. Über das Ästhetische hinaus faszinierten der seherische Gestus und die Ankündigung einer Zeitenwende, in der ein neuer Adel über die »letzten Menschen« triumphieren und den Nihilismus zu Grabe tragen werde. Als Nietzscheaner griff George zum Federkiel und sollte als weihevoller Sprach- und Ideenschöpfer selber einmal einen stattlichen Kreis von Jüngern um sich sammeln.
In Büdesheim bei Bingen wurde George am 12. Juli 1868 geboren. Mit 18 Jahren begann der Sohn eines Weinbauern mit dem Dichten, das sich noch weitgehend im Kosmos jugendlicher Gefühle bewegte; auffällig ist allenfalls die häufige Beschwörung von Dunkelheit und Vergänglichkeit. Gesichtsausdruck und Gebaren hatten bereits in den jungen Jahren etwas Melancholisches, Kühles und Erstarrtes, zu dem dann mit zunehmendem Alter das Abweisende und Imperatorische hinzutrat.
In betonter Abschottung vom verachteten Gesellschaftstreiben setzte George seine Dichtung ins Werk. Der deutschen Sprache sollte Würde, Glanz und Zucht wiedergegeben werden. Die Zeilen prunken mit einer feierlichen, mythischen und dräuenden Stimmung. Streng geformte Verse, bisweilen schimmernd wie schwarze Perlen, wurden durch eine eigene Rechtschreibung und Zeichensetzung mit der Aura des Exklusiven versehen.
Der Rheinhesse verachtete den Markt und dessen Reklamehaftigkeit und Nutzendenken; seine hochgezüchtete Lyrik, die bisweilen übertrieben und gekünstelt wirkt, sollte deshalb auch einem schnellen Kunstkonsum und billiger Marktgängigkeit entgegenwirken. Ganz Symbolist, Sinnbilder (Symbole) zur Errichtung einer autonomen Welt der Schönheit und Reinheit zu verwenden, baute er am Tempel einer zweckfreien Kunst. Für sich selbst sah er die Aufgabe als Tempelwächter, ja als Tempelherr. Später, nach seiner Hinwendung zu einem neuen Reich als Dach einer veredelten deutschen Gemeinschaft, umschrieb er seinen Sendungsauftrag mit den Worten: »Ich bin gesandt mit Fackeln und mit Stahl, daß ich euch härte.«
Nach dem Abschluß der Schule 1888 bereiste George als unruhiger Schönheitssucher Europa, erlernte Sprachen und unternahm weitere Bildungsanstrengungen. Mit den »Hymnen«, den »Pilgerfahrten« und dem Ludwig II. geweihten »Algabal« erschienen die ersten Gedichtbände. Als Forum für einzelne Dichtungen dienten die »Blätter für die Kunst«. In der zweiten Hälfte der neunziger Jahre hatte sich der Dichter bereits größere Anerkennung erworben und einen Kreis von Freunden und Bewunderern um sich versammelt.
Mit der Zeit entwickelte sich aus dem losen Gesinnungskreis um die »Blätter für die Kunst« der George-Kreis als strenge und hierarchische Gemeinschaft. George fungierte als unangefochtener dichterischer Meister, geistiger Ideenformer und sozialer Gesetzgeber. Noch heute widmen Literaturwissenschaftler, Historiker und Sozialpsychologen dem Faszinosum des George-Kreises Aufsätze und Bücher. Um den Meister als Zentralinstanz dieses »Staates« sammelten sich Jünger, von denen einige Spuren in der Geistesgeschichte hinterließen, so Max Kommerell, Friedrich Gundolf, Ernst Kantorowicz und Claus von Stauffenberg. Der Versuch Georges, den Symbolisten Hugo von Hofmannsthal und den Lebensphilosophen Ludwig Klages in sein Herrschaftsgebilde einzubinden, scheiterten, wie generell die eigentümlichen Sozialbeziehungen des Kreises höchst zerbrechlich waren. Hinzu kamen bizarre Blüten wie der Göttlichkeitskult, den George um den Knaben Max (»Maximin«) Kronberger veranstaltete, und skurrile Maskenfeste, die den Verdacht eines homoerotischen Männerbundes nährten.
Geheimes Deutschland
Tragende Idee des George-Kreises war das Geheime Deutschland, ein Mythos, der in der Herrlichkeit und geistigen Strahlkraft des staufischen Kaisertums Friedrich Barbarossas und Friedrichs II. seinen Wurzelgrund hat und von Hölderlin verschlüsselt in die Dichtung eingeführt wurde. Im November 1933 sprach der Georgianer Ernst Kantorowicz in einer Vorlesung vom Geheimen Deutschland als dem teutonischen Olymp, dem ewigen deutschen Geisterreich:
»Es ist die geheime Gemeinschaft der Dichter und Weisen, der Helden und Heiligen, der Opferer und Opfer, welche Deutschland hervorgebracht hat und die Deutschland sich dargebracht haben. (…) Es ist ein Seelenreich, in welchem immerdar die gleichen deutschesten Kaiser eigensten Ranges und eigenster Artung herrschen und thronen, unter deren Zepter sich zwar noch niemals die ganze Nation aus innerster Inbrunst gebeugt hat, deren Herrentum aber dennoch immerwährend und ewig ist und in tiefster Verborgenheit gegen das jeweilige Außen lebt und dadurch für das ewige Deutschland.«
Das Geheime Deutschland ist danach zugleich ein Reich von dieser und nicht von dieser Welt, ein Reich der Toten und Lebenden. Eine solch metaphysische Reichsidee wies eine natürliche Distanz zu den politischen Realitäten mit ihrem schnöden Tagesgeschäft auf. Den Kriegsausbruch 1914 wertete deshalb auch George als reinigendes Gewitter, das in eine morsche Zivilisation fahre und einem gehärteten Menschenschlag aus überlegenem Geist das Feld bereite. Im dritten Buch des »Stern des Bundes« von 1914 entwirft George das Bild eines Adels, der vom überlebten Blutadel strikt abgegrenzt wird: »Neuen adel den ihr suchet/ Führt nicht her von schild und krone!/ Aller stufen halter tragen/ Gleich den feilen blick der sinne/ Gleich den rohen blick der spähe…/ Stammlos wachsen im gewühle/ Seltne sprossen eigenen ranges/ Und ihr kennt die mitgeburten/ An der Augen wahrer Glut.«
George verstand sich als »Dichter in Zeiten der Wirren«, der von seinem Schwabinger Hochsitz den Weimarer Demokratismus voller Verachtung anprangerte und durch die Rangordnung eines führergeleiteten neuen Reiches ersetzt sehen wollte. Voll Gegenwartshaß und in raunendem Prophetenton erklingt diese Vision in dem bekannten Gedicht, das er dem Andenken des Grafen Bernhard Uxkull widmete.
Das Dritte Reich Adolf Hitlers erfüllte die hohen Erwartungen des elitären Dichters aber nicht und löste Distanzreaktionen aus. Zu seinem Geburtstag am 12. Juli 1933 gratulierte Joseph Goebbels dessen ungeachtet in einem Telegramm: »Dem Dichter und Seher, dem Meister des Wortes, dem guten Deutschen zum 65. Geburtstag ergebenste Grüße und Glückwünsche.« Kurz darauf fuhr George in die Schweiz, wo er seit Jahren die Wintermonate verbrachte und im Dezember 1933 verstarb.
Kurz darauf hielt der Expressionist Gottfried Benn eine Rede, in der er den verstorbenen Dichterherrscher als das »großartigste Durchkreuzungs- und Ausstrahlungsphänomen« der deutschen Geistesgeschichte feierte. Der Laudator, der seinen elitären Ordnungswillen von der Kunst auf die Politik übertragen hatte und so zum Faschisten geworden war, destillierte die beiden Begriffe heraus, die wie keine sonst das Wesen von Georges »imperativer Kunst« erfassen: »Form und Zucht«. Dem Geist der neuen Zeit entsprechend, die demokratische Formlosigkeit durch Form, libertäre Anarchie durch Ordnung ersetzte, würdigte Benn das Formgefühl Georges aus dem Geist des Griechentums und Friedrich Nietzsches: »Form, das ist für weite Kreise Dekadenz, Ermüdung, substantielles Nachlassen, Leerlauf, für George ist es Sieg, Herrschaft, Idealismus, Glaube. Für weite Kreise tritt die Form ,hinzu‘, ein gehaltvolles Kunstwerk und nun ,auch noch eine schöne Form‘; für George gilt: die Form ist Schöpfung; Prinzip, Voraussetzung, tiefstes Wesen der Schöpfung; Form schafft Schöpfung.«
Jürgen W. Gansel
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Ernst Jünger est mort: entretien avec Heimo Schwilk

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1998
Ernst Jünger est mort
Entretien avec Heimo Schwilk
Heimo Schwilk, né en 1952 à Stuttgart, a étudié la philosophie, la philologie germanique et l'histoire à Tübingen. De 1986 à 1991, il a été rédacteur au Rheinischer Merkur. Depuis 1991, Schwilk dirige la rédaction de la rubrique “Berlin und neue Bundesländer” du Welt am Sonntag. Pour ses reportages sur la Guerre du Golfe, il a reçu le célèbre prix “Theodor Wolff” en 1991. En 1988, il a édité chez Klett-Cotta un remarquable album de photographies sur la vie d'Ernst Jünger.
Q.: Quel vide laissera derrière lui l'écrivain Ernst Jünger qui vient de mourir ce mardi 17 février 1998?
HS: Tout d'abord, ils vont enfin pousser un soupir de soulagement, tous ceux qui ont voulu contester à Jünger la modeste place qu'il occupait encore dans cette société désarticulée qu'est la RFA. Lui, Jünger, l'homme que l'on ne pouvait pas utiliser, l'homme qui s'était volontairement soustrait au “discours” dominant, l'homme qui se désintéressait de la politique, est définitivement parti, se lançant dans sa dernière grande aventure, celle de la mort. Jünger nous a enseigné que la vie était mystère, que l'homme était un être merveilleux dans un monde merveilleux. Ce fondement romantique de la pensée de Jünger a en quelque sorte ouvert une faille dans le mur, faille qui le séparait, dès son vivant, de tous ceux qui travaillaient, opiniâtres, à la profanation et à la banalisation de notre existence. Jünger ne nous laisse aucun vide, mais un océan d'instants accomplis, qui sont devenus poésie dans un monde qui n'est plus que bavard-communicatif.
Q.: Bon nombre d'individus pressaient encore Ernst Jünger dans ses dernières années à prendre la parole en tant qu'“écrivain politique”. Il a toujours refusé. Mais entre les lignes, dans des remarques en marges, ne s'est-il pas mêlé subtilement au tumulte du monde, à sa manière?
HS: Ernst Jünger, immédiatement après l'accession au pouvoir des nationaux-socialistes a exprimé dans de nombreuses lettres jusqu'ici impubliées son sentiment: les discours sur la politique qui sont teintés d'opinions et de convictions équivalent à une auto-mutilation pour l'homme amoureux de la musique. Jünger avait derrière lui cinq années d'immixtion polémique dans des revues ou des ouvrages collectifs. Après 1945, il s'en est tenu à son verdict sur la politique. Les défenseurs de la littérature engagée se sont dressés contre lui et Benn disait de ses tristes sires, avec mépris: “ils rampent comme des chiens devant les concepts de la politique”. De fait, Jünger n'avait que bien peu de choses à apporter à ce discours qui se disait “démocratique”. En revanche, il avait énormément de choses à dire sur ce que Heidegger nommait les “existentiaux”: la temporalité, la déréliction (Geworfenheit), la mort. Il estimait que pontifier de la philosophie à côté des urnes électorales n'était pas une activité fort productive.
Q.: Pourquoi Ernst Jünger est-il tant apprécié de nos voisins, en particulier les Français, alors que chez nous, en Allemagne, il est demeuré un écrivain “contesté”?
HS: Etre contesté n'est en soi nullement répréhensible, pour autant que l'affrontement ait vraiment lieu et qu'on ne perpétue pas à l'infini, comme en Allemagne, une procédure de tribunal d'épuration. Les Français apprécient en premier lieu, chez Jünger, le fait qu'il a tant aimé leur pays —et cela c'est sympathique— qu'il le connaît parfaitement et qu'il le regarde dans ce qu'il a de spécifique. Ils paient tribut à sa moralité, celle avec laquelle il a mené à bien sa mission fort délicate d'officier des troupes d'occupation et d'écrivain en poste à Paris entre 1940 et 1944, sans jamais nuire à son intégrité. Ils aiment la clarté de sa langue, la force qu'elle met à nous éclairer. Ils considèrent que cette langue de Jünger exprime ce que vivent les sens, tout en restant typiquement allemande. François Mitterand remarquait, dans sa laudatio pour le centième anniversaire de l'écrivain, que Jünger était resté un “homme libre”. Cela voulait dire qu'il cultivait une pensée détachée de tout poncif, une pensée pour laquelle les applaudissements des masses n'avaient aucune signification.
Q.: Ernst Jünger a-t-il suivi l'actualité politique jusqu'à son dernier jour?
HS: Ernst Jünger lisait régulièrement la presse, y compris Junge Freiheit, mais il passait rapidement sur les rubriques politiques, comme il me l'a dit plusieurs fois. Il était bien au courant de la marche du monde et plus d'une remarque moqueuse dans ses journaux atteste qu'il observait avec attention le déclin de la politique politicienne à Bonn, surtout celle des “ grands partis populaires” dont les différences ne sont qu'apparences. Mais il s'intéressait surtout aux processus généraux d'uniformisation, que toute observation fine de notre époque révèle et que son Travailleur a exposé. Ensuite, il attendait du XXIième siècle l'avènement d'une nouvelle spiritualité, dont les prémisses sont justement les processus de déblaiement que décrivent ses essais et journaux.
Q.: Quelle est la signification de l'œuvre d'Ernst Jünger pour l'avenir?
HS: Elle réside dans sa foi en l'Etre, dans sa “nouvelle théologie”, qui refuse de laisser le dernier mot à la destructivité et à la petitesse de l'homme moderne.
Q.: L'une des figures les plus importantes dans la pensée de Jünger est l'anarque. Que devons-nous en penser aujourd'hui?
HS: L'anarque est, au contraire de l'anarchiste, ne cultive pas d'idées politiques, n'est pas une personnalité qui cherche le changement radical. Le politique est pour lui une chose extérieure, une dérivation, un phénomène secondaire. L'anarque —comme l'homme qui recourt aux forêts— demeure souverain et dispose librement de soi. Il joue son propre rôle dans la société. Service et liberté ne sont pas des contraires chez lui; le sacrifice, mais aussi le suicide, appartiennent à son capital. Dans Le recours aux forêts, Jünger a décrit cette attitude: «Celui qui recourt aux forêts possède un rapport originel avec la liberté, qui, vu sur le plan temporel, s'exprime par une résistance à tous les automatismes, ce qui implique qu'il n'ait pas à tirer la conséquence que dicte généralement l'éthique, c'est-à-dire adopter le fatalisme». L'anarque n'est pas un missionnaire, armé de ses connaissances, il vit comme l'unique et sa spécificité (Der Einzige und sein Eigentum), c'est-à-dire avec l'ensemble de ses expériences, mais il brille devant tous les autres, à titre d'exemple. Peut-on dire quelque chose de plus pertinent sur la personne d'Ernst Jünger?
(entretien paru dans Junge Freiheit, n°9/1998; propos recueillis par Dieter Stein).
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samedi, 31 octobre 2009
Hommage de Günter Rohrmoser à Ernst Jünger

Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1998
Hommage de Günter Rohrmoser, philosophe et sociologue conservateur
Mon rapport à Ernst Jünger a plutôt été celui de la distance. Je ne suis pas, me semble-t-il, la personne appropriée pour lui rendre hommage à l'occasion de son décès, ni pour prendre position à l'endroit de l'ensemble de son œuvre. Dieu merci, Ernst Jünger n'est pas resté toujours le même homme. L'Ernst Jünger de la première guerre mondiale, l'Ernst Jünger du temps de la République de Weimar, l'Ernst Jünger du temps du Troisième Reich et l'Ernst Jünger d'après la seconde guerre mondiale sont autant de facettes très différentes d'une œuvre qui embrasse l'ensemble du siècle. C'est incontestable: il appartient à l'aréopage des plus grands écrivains de ce siècle. Et si le socialiste Mitterrand ne s'était pas affirmé comme un très bon connaisseur et un admirateur de l'œuvre de Jünger, la querelle stérile entre la gauche et la droite à propos de sa personne aurait continué bon train. Pour moi, aujourd'hui comme hier, l'œuvre principale de Jünger reste Der Arbeiter. Ce livre a été interprété comme une contribution de l'auteur au national-socialisme, ce qui est complètement faux. Der Arbeiter est l'une des plus grandes descriptions physiognomiques de notre siècle; les paysages terrifiants du “cœur aventureux” en sont le complément. Certes, le Travailleur est un mythe: il n'a pas grand' chose à voir avec la réalité ouvrière du 20ième siècle. Mais, depuis, le monde s'est transformé et ressemble désormais à un paysage d'ateliers et de fabriques; tout est devenu travail et, comme auparavant, nous luttons pour faire advenir ce que Jünger nommait une “construction organique”, c'est-à-dire une nouvelle fusion entre l'homme et la technique. Avec ces paroles, il a touché notre siècle en plein cœur. Ensuite, ce n'est nullement un hasard si, avec cet ouvrage, il a plus profondément influencé Heidegger que celui-ci n'a bien voulu l'admettre. Personnellement, je ne trouve guère d'inspiration dans le Jünger d'après la seconde guerre mondiale. Je me souviens que Carl Schmitt annonçait, tout étonné, mais aussi à moitié amusé, qu'Ernst Jünger pensait que l'éon chrétien s'achevait. La spéculation qui calcule l'âge de la Terre et qui, dans une certaine mesure, dérive des travaux d'Oswald Spengler, ne sont pas du goût de tout le monde. Jünger a certes été un homme pie(ux), mais il était très éloigné du christianisme, plus éloigné sans doute que d'un païen de l'antiquité.
Günter ROHRMOSER.
(texte paru dans Junge Freiheit, n°9/98).
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jeudi, 29 octobre 2009
Hommage de Günter Maschke à Ernst Jünger
Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1998
L'hommage de Günter Maschke
«L'intelligence se soumet dès qu'elle accepte une question, indépendamment du fait qu'on y répondra oui ou non», notait Ernst Jünger après la première guerre mondiale. A cette époque, après 1918, il y avait encore assez d'intellectuels dans l'Allemagne vaincue qui avaient la force de rejeter l'impudence des puissances victorieuses et de leurs valets allemands qui voulaient imposer au pays leurs recettes libérales-démocratiques. Aujourd'hui, la situation est devenue beaucoup plus difficile, et c'est la raison pour laquelle il nous faut apprendre le désinvolture jüngerienne. Tel est notre devoir supérieur.
Günter MASCHKE.
(hommage publié par Junge Freiheit, n°9/98).
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mercredi, 28 octobre 2009
Julius Evola: The Path of Cinnabar
Julius Evola: The Path of Cinnabar
Quick Overview
Not previously available in the English language, this is the first translation of Julius Evola’s autobiography, Il Cammino del Cinabro. The book provides a guide to Evola’s corpus as he explains the purpose of each of his books. This book is the key which unlocks the unity behind Evola’s diverse interests. It is a perfect place to start for those new to Evola’s thought, and a must read for all seasoned Evolians. The book includes hundreds of well-researched footnotes and a complete index. This book is also available in a hardback edition.
Product Description
Julius Evola was a renowned Dadaist artist, Idealist philosopher, critic of politics and Fascism, 'mystic', anti-modernist, and scholar of world religions. Evola was all of these things, but he saw each of them as no more than stops along the path to life's true goal: the realisation of oneself as a truly absolute and free individual living one's life in accordance with the eternal doctrines of the Primordial Tradition. Much more than an autobiography, The Cinnabar Path in describing the course of Evola's life illuminates how the traditionally-oriented individual might avoid the many pitfalls awaiting him in the modern world. More a record of Evola's thought process than a recitation of biographical facts, one will here find the distilled essence of a lifetime spent in pursuit of wisdom, in what is surely one of his most important works.
Additional Information
Title | Julius Evola: The Path of Cinnabar (Softcover) |
Author | Evola, Julius |
Full Title | The Path of Cinnabar: An Intellectual Autobiography |
Binding | Softcover |
Publisher | Integral Tradition (2009) |
Pages | 302 |
ISBN | 9781907166020 |
Language | English |
Price | € 19.95 |
Short Description | Not previously available in the English language, this is the first translation of Julius Evola’s autobiography, Il Cammino del Cinabro. The book provides a guide to Evola’s corpus as he explains the purpose of each of his books. This book is the key which unlocks the unity behind Evola’s diverse interests. It is a perfect place to start for those new to Evola’s thought, and a must read for all seasoned Evolians. The book includes hundreds of well-researched footnotes and a complete index. This book is also available in a hardback edition. |
Table of Contents | Foreword 1. The Path of Cinnabar Appendix: Interviews with Julius Evola (1964-1972) |
About the Author | Julius Evola (1898 -1974), Italian traditionalist, metaphysician, social thinker and activist. Evola is an authority on the world's esoteric traditions and one of the greatest critics of modernity. He wrote extensively on ancient civilisations of both East and West and the world of Tradition. |
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mardi, 27 octobre 2009
Spengler, Jahre der Entscheidung
Spengler, Jahre der Entscheidung |
![]() "www.webcritics.de vom 08.11.2007" BUCHBESTELLUNG |
Ohne Zweifel sind die Schriften des Geschichtsphilosophen, Kulturhistorikers und politischen Schriftstellers Oswald Spengler (1880–1936), des „Philosophen des Schicksals“ (Frank Lisson) wieder aktuell. Mit der vorliegenden Schrift hat Frank Lisson die letzte Schrift Spenglers neu herausgebracht und mit einem interessanten Vorwort versehen. Bei der Lektüre meint man, daß dies das stimmungsmäßig resignierendste und verzweifeltste Buch ist, welches in Deutschland je unter der Rubrik „politische Schrift“ erschienen ist. |
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lundi, 26 octobre 2009
La Guerre comme expérience intérieure
Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1998
La Guerre comme Expérience Intérieure
Analyse d'une fausse polémique
«Pour le soldat, le véritable combattant, la guerre s'identifie à d'étranges associations, un mélange de fascination et d'horreur, d'humour et de tristesse, de tendresse et de cruauté. Au combat, l'homme peut manifester de la lâcheté ou une folie sanguinaire. Il se trouve alors écartelé entre l'instinct de vie et l'instinct de mort, pulsions qui peuvent le conduire au meurtre le plus abject ou à l'esprit de sacrifice» (Philippe Masson, L'Homme en Guerre 1901-2001, Editions du Rocher, 1997).
Voici quelques mois paraissait, dernière publication française du vivant de Ernst Jünger, La Guerre comme Expérience Intérieure, préfacée par le philosophe André Glucksmann, chez Christian Bourgois éditeur, maison qui depuis des années s'est fait une spécialité des traductions jüngeriennes. Un texte d'importance, qui vient utilement compléter les écrits de guerre déjà parus de l'écrivain allemand, Orages d'Acier, Boqueteau 125, et Lieutenant Sturm, ouvrages de jeunesse que les spécialistes de son oeuvre polymorphe considèrent à la fois comme les plus vindicatifs, initiateurs de ses prises de position politique ultérieures, et parallèlement déjà annonciateurs du Jünger métaphysique, explorateur de l'Etre, confident de l'intimité cosmique.
Engagé volontaire au premier jour des hostilités en 1914, quatorze fois blessé, titulaire de la Croix de Fer Première Classe, Chevalier de la Maison des Hohenzollern, de l'Ordre «Pour le Mérite», distinction suprême et rarissime pour un homme du rang, Ernst Jünger publie dès 1920, à compte d'auteur et, comme il se plaira à dire par la suite, «sans aucune intention littéraire», In Stahlgewittern (Les Orages d'Acier), qui le révèlent d'emblée au milieu des souvenirs tous larmoyants des Barbusse, Remarque, von Unruh ou Dorgelès, comme un rescapé inclassable, un collectionneur tant de révélations ontologiques que de blessures physiques et morales. André Gide et Georges Bataille crieront au génie.
Une théorie du guerrier émancipé
Estimant ne pas avoir épuisé son sujet, il surenchérit en 1922 par la publication de Der Kampf als inneres Erlebnis (La Guerre comme Expérience intérieure), qu'il dédie à son jeune frère Friedrich Georg Jünger, lui aussi combattant émérite de la guerre mondiale et talentueux publiciste: «A mon cher frère Fritz en souvenir de notre rencontre sur le champ de bataille de Langemarck». Il découpe son manuscrit en treize courts tableaux, autant de souvenirs marquants de SA guerre, qu'il intitule sans fard Sang, Honneur, Bravoure, Lansquenets, Feu ou encore Veillée d'armes. Nulle trace d'atermoiement dans la plume de Jünger, nul regret non plus: «Il y a davantage. Pour toute une partie de la population et plus encore de la jeunesse, la guerre apparaît comme une nécessité intérieure, comme une recherche de l'authenticité, de la vérité, de l'accomplissement de soi (...) une lutte contre les tares de la bourgeoisie, le matérialisme, la banalité, l'hypocrisie, la tyrannie». Dans ces quelques mots tirés de W. Deist, extraits de son article Le moral des troupes allemandes sur le front occidental à la fin de 1916 (in Guerre et Cultures, Armand Colin, 1994), transparaît l'essentiel du Jünger de l'immédiat après-guerre.

Préambule au récit, la lecture de la préface d'André Glucksmann laisse bien sceptique quant à sa légitimité. «Le manifeste, ici réédité, est un texte fou, mais nullement le texte d'un fou. Une histoire pleine de bruit, de fureur et de sang, la nôtre». En s'enferrant dans les classiques poncifs du genre, le philosophe relègue la pensée de Jünger à une simple préfiguration du national-socialisme, fait l'amalgame douteux entre Der Kampf... et Mein Kampf. Et s'il note avec justesse que le Lansquenet du présent ouvrage annonce le Travailleur de 1932, il n'en restreint pas moins l'œuvre de Jünger à la seule exaltation de la radicalité, du nihilisme révolutionnaire (citant pêle-mêle Malraux, Breton et Lénine), à l'union du prolétariat et de la race sans distinguer la distance jüngerienne de la soif de sang et de haine qui nourriront fascisme, national-socialisme et bolchévisme. A vouloir moraliser un essai par essence situé au-delà de toute morale, Glucksmann dénature Jünger et passe à coté de son message profond.
L'ennemi, miroir de sa propre misère
Là où Malraux voit le «fondamental», Jünger perçoit «l'élémentaire». L'adversaire, l'ennemi n'est pas le combattant qui se recroqueville dans le trou d'en face mais l'Homme lui-même, sans drapeau, l'Homme seul face à ses instincts, à l'irrationnel, dépouillé de tout intellect, de tout référent religieux. Jünger prend acte de cette cruelle réalité et la fait sienne, s'y conforme et retranscrit dans ces pages quelles purent être les valeurs nouvelles qui en émergèrent, terribles et salvatrices, dans un esprit proche de celui de Teilhard de Chardin écrivant: «L'expérience inoubliable du front, à mon avis, c'est celle d'une immense liberté». Homo metaphysicus, Jünger chante la tragédie du front et poétise l'empire de la bestialité, champ-clos où des siècles de civilisation vacillent et succombent sous le poids des assauts répétés et du fracas des bombardements. «Et les étoiles alentour se noient en son brasier de feu, les statues des faux dieux éclatent en tessons d'argile, et de nouveau toute forme forgée se fond en mille fourneaux ardents, pour être refondue en des valeurs nouvelles». Et dans cet univers de fureur planifiée, le plus faible doit «s'effacer», sous les applaudissements d'un Jünger darwiniste appliqué qui voit l'homme renouer avec sa condition originelle de guerrier errant. «C'est ainsi, et depuis toujours». Dans la lutte paroxystique que se livrent les peuples sous l'emprise hypnotique des lois éternelles, le jeune lieutenant des Stoßtruppen discerne l'apparition d'une nouvelle humanité dont il commence à mesurer la force, terrible: «une race nouvelle, l'énergie incarnée, chargée jusqu'à la gueule de force».
Jünger lègue au lecteur quelques-uns des plus beaux passages sur ces hommes qui, comme lui, se savent en sursis, et rient de se constater encore vivants une aube après l'autre: «Tout cela imprimait au combattant des tranchées le sceau du bestial, l'incertitude, une fatalité toute élémentaire, un environnement où pesait, comme dans les temps primitifs, une menace incessante (...) Dans chaque entonnoir du no man's land, un groupe de chuchoteurs aux fins de brusques carnages, de brève orgie de feu et de sang (...) La santé dans tout cela? Elle comptait pour ceux qui s'espéraient longue vieillesse (...) Chaque jour où je respire encore est un don, divin, immérité, dont il faut jouir à longs traits enivrés, comme d'un vin de prix». Ainsi entraîné dans le tourbillon d'une guerre sans précédent, totale, de masse, où l'ennemi ne l'est plus en tant que défenseur d'une patrie adverse mais qu'obstacle à la réalisation de soi —miroir de sa propre misère, de sa propre grandeur— le jeune Jünger en vient de facto à remettre en cause l'héritage idéologique de l'Aufklärung, son sens de l'Histoire, son mythe du progrès pour entrevoir un après-guerre bâti sur l'idéal de ces quelques-uns, reîtres nietzschéens fils des hoplites de Salamines, des légions de Rome et des Ligues médiévales appliquant l'éthique de la chevalerie moderne, «le marteau qui forge les grands empires, l'écu sans quoi nulle civilisation ne tient».
Un sens de l'Homme plus élevé que celui de la nation
L'horreur au quotidien, Jünger la connaît, qui la côtoie sans répit et la couche sans concession aucune sur le papier —«On reconnaît entre toutes l'odeur de l'homme en putréfaction, lourde, douceâtre, ignoblement tenace comme une bouillie qui colle (...) au point que les plus affamés en perdaient l'appétit»— mais, à la grande différence des bataillons qui composeront les avant-gardes fascistes des années vingt et trente, il n'en retire ni haine ni nationalisme exacerbé, et rêve bien plutôt d'un pont tendu au-dessus des nations entre des hommes forgés sur le même moule implacable des quatre années de feu et de sang, répondant aux mêmes amours viriles: «Le pays n'est pas un slogan: ce n'est qu'un petit mot modeste, mais c'est aussi la poignée de terre où leur âme s'enracine. L'Etat, la nation sont des concepts flous, mais ils savent ce que pays veut dire. Le pays, c'est un sentiment que la plante est capable d'éprouver». Loin de toute xénophobie, vomissant la propagande qui attise des haines factices, le «gladiateur» Jünger, amoureux de la France et que touche plus qu'un éclat d'obus de s'entendre qualifié de “boche”, se déclare ainsi proche des pacifistes, «soldats de l'idée» qu'il estime pour leur hauteur d'esprit, leur courage pour ceux qui ne craignent pas seulement de mourir au feu, et leur sens de l'Homme plus élevé que celui de la nation. Aussi peut-il songer lors des accalmies, tapi dans son repli de tranchée, à l'union nouvelle des lansquenets et des pacifistes, de D'Annunzio et Romain Rolland. Effet des bombes ou prophétisme illuminé, toujours est-il que La Guerre comme Expérience intérieure prend ici une dimension et une résonance largement supérieures à celles des autres témoignages publiés après-guerre, et que se dessine déjà en filigrane le Jünger de l'autre conflit mondial, celui de La Paix.
Ce qui fait la beauté de l'existence, son illusoire
«La guerre m'a profondément changé, comme elle l'a fait, je le crois, de toute ma génération» et si elle n'est plus «son esprit est entré en nous, les serfs de sa corvée, et jamais plus ne les tiendra quittes de sa corvée». L'oeuvre intégrale d'Ernst Jünger sera imprégnée de la sélection dérisoire et arbitraire du feu qui taillera dans le vif des peuples européens et laissera des séquelles irréparables sur la génération des tranchées. On ne peut comprendre Le Travailleur, Héliopolis, Le Traité du Rebelle sans se pénétrer du formidable (au sens originel du terme) nettoyage culturel, intellectuel et philosophique que fut la «guerre de 14», coupure radicale d'avec tous les espoirs portés par le XXème siècle naissant.
Ce qui fait la force de Jünger, son étrangeté au milieu de ce chaos est que jamais il ne se résigne et persiste à penser en homme libre de son corps et de son esprit, supérieur à la fatalité —«qui dans cette guerre n'éprouva que la négation, que la souffrance propre, et non l'affirmation, le mouvement supérieur, l'aura vécue en esclave. Il l'aura vécue en dehors et non de l'intérieur». Tandis qu'André Glucksmann se noie dans un humanisme béat et dilue sa pensée dans un moralisme déplacé, Jünger nous enseigne ce qui fait la beauté de l'existence, son illusoire.
«De toute évidence, Jünger n'avait jamais été fasciné par la guerre, mais bien au contraire, par la paix (...) Sous le nom de Jünger, je ne vois qu'une devise: «Sans haine et sans reproche» (...) On y chercherait en vain une apologie de la guerre, l'ombre d'une forfanterie, le moindre lieu commun sur la révélation des peuples au feu, et —plus sûr indice— la recherche des responsabilités dans les trois nombreux conflits qui de 1870 à 1945, ont opposé la France à l'Allemagne». (Michel Déon, de l'Académie Française)
Laurent SCHANG.
Ernst JÜNGER, La Guerre comme Expérience Intérieure, préface d'André Glucksmann, Christian Bourgois éditeur, 1997.
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dimanche, 25 octobre 2009
L'instant brûlant
Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1998
L'instant brûlant
Quand meurt un homme, le chant de sa vie est joué dans l'éther. Il a le droit d'écouter jusqu'à ce qu'il passe au silence. Il prête alors une oreille si attentive au milieu des souffrances, de l'inquiétude. En tout cas, celui qui imagina le chant était un grand maître. Cependant, le chant ne peut être perçu dans la pureté du son que là où disparaît la volonté, là où elle cède à l'abnégation (1).
Ernst Jünger s'est avancé, ce 17 février 1998, vers des régions où les ciseaux de la Parque ne tranchent pas.
Les réactions lorsque fut annoncé ce deuil dans le monde des Lettres et de la pensée furent tristement coutumières. En ces temps où prévaut le “politiquement conforme”, certains critiques se sont distingués par des analyses sinon élogieuses (comme l'excellent article de Dominique Venner paru dans Enquête sur l'Histoire) du moins pertinentes (dans un magazine allemand inattendu, Focus). D'autres, zélés contempteurs inféodés à une idéologie qu'ils servent dans les organes de la presse française et allemande, se sont empressés de diffamer une œuvre qu'ils ne se sont jamais donnés la peine de lire et l'avouent parfois. Diable! Le personnage est agaçant: doté tout à la fois d'un esprit d'une rare fécondité et d'une vigueur physique non moins surprenante qui lui a permis de traverser la presque totalité du XX° siècle, ce plus que centenaire n'a eu de cesse d'aimer son pays, de ne se rétracter en rien: écrits bellicistes à l'issue de la Première Guerre mondiale, vision élitiste, contemplation douloureuse lors de l'entre-deux guerres... Il n'a rien renié; seul parfois l'angle de la perspective devait changer, mais faut-il forcer un homme à n'être qu'un bloc monolithique? Toutefois, est-il décent, en cette période, de s'irriter des réactions coutumières quand on prononce le nom de Jünger, de dresser dès à présent le bilan de l'œuvre? Les lecteurs fidèles préféreront encore se tourner vers cet Eveilleur qui a su nous offrir une élégante méditation philosophique et poétique sur les maux qui rongent notre civilisation.
Les ciseaux de la Parque... Par respect pour ce “passage” qui intriguait tant Ernst Jünger, nous évoquerons dans ces colonnes sa métaphysique de la mort, qui apparaît dès 1928 dans la première version du Cœur aventureux. Car à force d'avoir voulu préciser les choix politiques souvent au sens large de Jünger, on a souvent oublié que cet auteur, s'il avait voulu agir sur l'histoire, ne s'intéressait pas moins aux questions d'ordre spirituel. Or, parler de la mort consiste justement à se plonger dans les eaux régénératrices de la spiritualité. Reportons-nous à un texte révélateur de 1928
La vie est un nœud qui se noue et se dénoue dans l'obscurité. Peut-être la mort sera-t-elle notre plus grande et plus dangereuse aventure, car ce n'est pas sans raison que l'aventurier recherche ses bords enflammés (2).
Le symbole de l'entortillement
Procréation et mort marquent la fin du lacet, de ce noeud coulant qui, relié à son principe du domaine éternel, pénètre dans le règne terrestre. Pour Jünger, vie et mort sont intimement liées. Dans sa seconde version du Cœur aventureux qui paraît en 1938, Jünger recourt une nouvelle fois au symbole de l'entortillement. La théorie du lacet fait alors partie intégrante de l'initiation de Nigromontanus, maître mystérieux et charismatique. Le principe qu'il explique suppose une manière supérieure de se soustraire aux circonstances empiriques.
Il [Nigromontanus] nommait la mort le plus étrange voyage que l'homme puisse faire, un véritable tour de passe, la capuche de camouflage par excellence, aussi la plus ironique réplique dans l'éternelle controverse, l'ultime et l'imprenable citadelle de tous les êtres libres et vaillants (3).
Cet aspect nous ramène aux liens qu'entretiennent la mort et la liberté pour Jünger. Qui craint la mort doit renoncer à sa liberté. Le renforcement puissant de cette dernière n'est possible que si l'on part de la certitude que l'homme, en mourant, ne disparaît pas dans le néant, mais se voit élevé dans un être éternel. Aussi la pensée de Jünger tourne-t-elle sans cesse autour de la mort, parce qu'il veut infiniment fortifier la position de la liberté et assurer l'essence éternelle de l'homme. Ces idées acquises sur les champs de bataille, il les émet encore dans Heliopolis en 1949 et dans l'essai Le Mur du Temps, paru en 1959.
Celui qui ne connaît pas la crainte de la mort est l'égal des dieux (4).
Une conception grecque et platonicienne de la mort
La conception jüngerienne de la mort, en rien chrétienne, est influencée par la pensée grecque, notamment platonicienne. Les lectures attentives des dialogues Phédon, Gorgias, La République (notamment le X° chapitre) ont laissé leur trace dans l'œuvre jüngerienne. L'anamnèse platonicienne, nous la retrouvons formulée dans la deuxième version du Cœur aventureux et plus précisément dans “La mouche phosphorescente”. Jünger rapporte de la conversation de deux enfants qu'il surprit un jour cette phrase qui fusa, telle une illumination intellectuelle:
Et sais-tu ce que je crois? Que ce que nous vivons ici, nous le rêvons seulement; mais quand nous serons morts, nous vivrons la même chose en réalité (5).
La vie semble se réduire à n'être que le reflet de cette vie véritable, impérissable, qui ne jaillit qu'au-delà de la mort. Voyons-y une fois encore le triomphe de l'être intemporel sur l'existence terrestre, qui est déterminée par le temps qui s'écoule perpétuellement!
Nous trouvons chez Jünger une inversion de la mort, comme si cette dernière signifiait en fait le réveil d'un rêve étrange, peut-être même mauvais. Cela n'est pas sans évoquer la métaphysique de la mort, telle que l'avait formulée le romantique Novalis dans les Hymnes à la Nuit et le roman Heinrich von Ofterdingen.
Le monde devient rêve, le rêve devient monde [...]
Mélancolie et volupté, mort et vie
Sont ici en intime sympathie (6)
Idéalisation de la nuit et goût de l'outre-tombe
L'idéalisation de la nuit qui apparaît au cours du XIX° siècle dans le culte lamartinien de l'automne, le goût de l'outre-tombe, l'attraction de la mort sur Goethe, sur Novalis et sur Nodier, la nécrophilie de Baudelaire, jette encore des feux de vie dans la pensée de Jünger. Le procès intenté à la raison comme nous l'avons perçu au XIX° siècle se poursuit au XX° siècle contre l'idéologie positiviste; cette véritable offensive vient des horizons les plus variés: citons R. von Hartmann et sa Métaphysique de l'Inconscient, Barrès et le Culte du Moi, Bergson et l'Evolution créatrice ou l'Essai sur les données immédiates de la conscience. La redécouverte de l'inconscient des psychanalystes est aussi certainement liée à cette révolte.
La mort apparaît comme l'ultime libération de l'esprit du monde de la matière. A cet égard, la nouvelle “Liebe und Wiederkunft” —“amour et retour”—, très révélatrice, traduit une philosophie de l'histoire où des événements similaires se produisent sans cesse dans le même ordre, un retour de l'identique sous des formes différentes. L'histoire déjà parue dans la première version du Cœur aventureux localise à Leisnig le passage à l'écriture et se voit dotée d'un titre une décennie plus tard. Jünger s'est alors contenté de préciser ici une image, d'affiner une idée ou de changer là l'emploi d'un temps verbal; il n'a en rien touché le contenu de l'histoire.
La trame est simple. Le narrateur, un officier, est tout d'abord naufragé sur une île de l'Océan Atlantique. Recueilli par une vertueuse femme qui prit le voile, il se rend peu à peu à l'évidence qu'une relation séculaire les lie l'un à l'autre. La fonction de cette femme consiste à soigner et à veiller les hommes qui, pour avoir goûté une belle plante narcotique, dorment le lourd sommeil du coma. Malgré les injonctions de la religieuse, le narrateur n'y résiste pas non plus et devient lui-même la proie du sommeil et du rêve. Pourtant, le voilà de nouveau sur l'île, menacée cette fois par l'inimitié d'une flotte espagnole! Hôte d'une généreuse famille pirate, amoureux de la fille de la maison, le narrateur se prépare, chevaleresque, à livrer combat. Or, n'aperçoit-il pas soudain une fleur merveilleuse, ne succombe-t-il pas encore à l'impérieux désir de la goûter?
Dans la dernière lueur du crépuscule, j'eus le temps encore de pressentir que je vivrais d'innombrables fois pour rencontrer cette même jeune fille, pour manger cette même fleur, pour m'abîmer de cette même manière, tout comme d'innombrables fois déjà ces choses avaient été mon lot (7).
Une fleur aux couleurs du danger: le rouge, le jaune
Cette singulière histoire nous permet de mieux cerner la double nature de l'homme, ce qui fonde son originalité et son drame: son âme est immortelle et son corps périssable. Il est certain que la présence de cette fleur ne peut qu'évoquer le symbole le plus connu de toute l'œuvre de Novalis, la fleur bleue qui enchante le roman Heinrich von Ofterdingen et qui marque, de par ses racines et la couleur céleste de ses pétales, l'union de la terre et du ciel. La fleur jüngerienne n'est pas parée du bleu spirituel et bienfaisant. Ses pétales arborent les teintes de la vie et du danger, le jaune et le rouge (8); tout comme Goethe, rappelons-le, Jünger devait conférer une signification particulière aux couleurs. La fleur, belle et menaçante, figure l'instabilité essentielle de l'être , qui est voué à une évolution perpétuelle. Ernst Jünger semble admettre que la mort n'est pas un fait définitif, mais une simple étape de la série des transformations auxquelles tout être est soumis. La réminiscence d'un état antérieur, telle qu'elle semble affecter l'imagination nocturne de Jünger et que nous venons d'évoquer, soulève le délicat problème de l'incarnation successive des âmes et dramatise ainsi la notion d'un éternel retour. Ne soyons donc pas surpris de trouver dans Le Cœur aventureux les très célèbres vers de Goethe:
Ah, tu étais ma sœur ou ma femme, en des temps révolus (9).
Ces vers impliquent la reconnaissance des choses entre elles, de leurs liens, une conscience de leur parenté qui peut dépasser le cadre restreint de l'espèce humaine; d'ailleurs Jünger, dans le même passage, se fait écho de Byron:
Les monts, les vagues, le ciel ne font-ils partie de moi et de mon âme, et moi-même d'eux? (10).
La mort est le “souvenir le plus fort”
Finalement, la mort est pour Jünger un souvenir enfoui au plus profond de la mémoire, “le souvenir le plus fort” “der Tod ist unsere stärkste Erinnerung” (aHl, 75). L'homme qui, pour Jünger, représente infiniment plus que le corps physique, est doté d'une mémoire qui semble survivre à la destruction de la matière. Le dualisme de la vision anthropologique que nous décelons ici évoque celui de Platon, qui stipula la primauté de l'âme sur le corps. Fidèle à ses influences pythagoriciennes, Platon reprit à son compte l'idée de l'immortalité de l'âme; dans sa préexistence ou postexistence, l'âme voit les idées, mais en s'incarnant dans sa prison de chair, elle les oublie. Rappelons-nous que celui qui, chez Hadès, conserve la mémoire transcende la condition mortelle, échappe au cycle des générations. D'après Platon, les âmes assoiffées doivent éviter de boire l'eau du Léthé car l'oubli, qui constitue pour l'âme sa maladie propre, est tout simplement l'ignorance. Voilà peut-être la raison pour laquelle les Grecs prêtaient à Mnémosyne “mémoire”, la mère des Muses, de grandes vertus! L'histoire que chante la Titanide est déchiffrement de l'Invisible; la mémoire est fontaine d'immortalité. Nous pensons trouver ici un lointain écho de cette sagesse antique chez Jünger car, dans son œuvre, le contact avec l'autre monde est permis grâce à la mémoire. Celle-ci joue donc un rôle fondamental dans l'affirmation de l'identité personnelle et nous ne pouvons que souligner cette faveur qu'elle trouve auprès de Jünger, si l'on se réfère à ses journaux intimes, ces voyages entrepris dans les profondeurs du moi et d'où surgissent à la conscience des aspects nouveaux de l'être, mêlé parfois à toute une tonalité poétique.
L'aspect orphique de Jünger
Le roman philosophique Eumeswil (1977), à cet égard très révélateur, montre l'aspect orphique de Jünger. La mémoire, par l'intermédiaire du Luminar, fait tomber la barrière qui sépare le présent du passé. Que ce soit par le biais du Luminar ou par l'évocation des morts dans le jardin de Vigo, un pont est jeté entre le monde des vivants, au-delà duquel retourne tout ce qui a quitté la lumière du soleil. Cette évocation des morts n'est pas sans éveiller à notre mémoire le rituel homérique, qui connaît deux temps forts: d'une part, l'appel chez les vivants et, d'autre part, la venue au jour, pour un bref moment, d'un défunt remonté du monde infernal. Le voyage d'un vivant au pays des morts semble également possible, ainsi le chamane Attila qui s'aventura dans les forêts.
La place centrale que les mythes de type eschatologique accordèrent à la mémoire indique l'attitude de refus à l'existence temporelle. Si Jünger exalte autant la mémoire, nous pouvons nous demander s'il n'est pas mû par la tentation d'en faire une puissance qui lui permette de réaliser la sortie du Temps et le retour du divin.
Qu'en est-il du vieil homme? Dans l'attente de l'ultime rendez-vous, habitué à la mort pour l'avoir côtoyée sur les fronts, dans les deuils et les déchirements qu'elle causa, il ne peut abandonner une inquiétude, qu'il exprime Deux fois Halley:
Au contraire, ce qui me préoccupe depuis longtemps, c'est la question du franchissement; une coupe en terre est transformée en or, puis en lumière. A cela une seule chose m'inquiète: c'est de savoir si l'on prend encore connaissance de cette élévation, si l'on s'en rend encore compte (11).
Parques, Moires, Nornes
Quelques années plus tard paraît le journal Les Ciseaux, que Jünger écrivit de 1987 à 1989. L'outil bien anodin dont il est ici question appartient aux sœurs filandières des Enfers qui filent et tranchent le fil de nos destinées. Etrangères au monde olympien, ces Parques ou Moires du monde hellénique sont les déesses de la Loi. Lachésis tourne le fuseau et enroule le fil de l'existence, Clotho, la fileuse, tient la quenouille et file la destinée au moment de la naissance. La fatale Atropos coupe le fil et détermine la mort. La représentation ternaire des fileuses, également présente dans le religieux germanique où les Nornes filent la destinée des dieux et celle des hommes, évoque la trinité passé, présent et futur et nous permet d'entrer dans la temporalité. Ce fil est le lien qui nous attache à notre destinée humaine, nous lie à notre mort. Ce qui importe ici, c'est que, d'une part, l'outil retenu par Jünger ne soit ni le fuseau ni la quenouille mais bien les ciseaux de la divinité morticole et que, d'autre part, Jünger valorise non le fil ou le tissage mais la coupure par les ciseaux.
Le titre de l'essai et les discrètes allusions aux Moires, à ces divinités du destin, intègrent l'écrit dans l'ensemble de la réflexion jüngerienne sur le temps et la temporalité. Quoi d'étonnant à ce qu'il établisse des correspondances secrètes avec ses écrits antérieurs et jongle avec des idées abondamment traitées dans le passé! Les allusions au Travailleur, au Mur du temps sont nombreuses; sans grande peine, nous retrouvons Le Traité du Sablier, Le Problème d'Aladin, Eumeswil et même la théorie du “lacet” propre au Cœur aventureux. Cette œuvre de continuité qui n'est certes pas l'écrit le plus original de Jünger, prend l'aspect d'une récapitulation. Dans cet écrit tout en nuances, à défaut d'avoir énoncé des théories véritablement nouvelles, Jünger a composé une série d'accords d'accompagnements, s'attaquant à des problèmes essentiels de notre temps. Les Ciseaux sont en cela une méditation sur les aventures de notre siècle qu'ils posent, sur un fond de dualisme entre races divines, le problème crucial de l'éthique dans un monde où la science et le progrès technique repoussent les frontières d'une science morale désormais dépassée. Nous reconnaissons cette volonté d'ordonner le monde à d'autres fins que matérialistes.
Jünger considère le Temps sous la loi de deux règnes, d'une part celle du temporel où les ciseaux d'Atropos ne coupent pas et annoncent cet infini comme nous pouvons déjà le percevoir dans les rêves et l'extase. L'essai parle donc de la conscience jüngerienne de la mort et de cette douloureuse et inquiétante question du passage, de l'ultime franchissement.
Du comportement psychologique des agonisants
Cette curiosité incite l'auteur à s'interroger sur l'état de mort temporelle et sur les souvenirs des rares patients qui, rappelés à la vie, reprochent à leur médecin de les avoir empêchés de passer le tunnel de la mort (Schere, 73 sq). Sensible peut-être à cette vague déferlante de littérature occultiste qui aborde depuis quelques années la vie postmortelle, (est-là un présage de l'ère du Verseau?) ne va-t-il pas jusqu'à citer Elisabeth Kübler-Ross (12), cette femme d'origine suisse alémanique, installée aux Etats-Unis d'Amérique? En sa qualité de médecin, elle édita de nombreux ouvrages portant sur le comportement psychologique des agonisants; elle examina les récits des patients qu'avaient ressuscités les nouvelles techniques médicales de la réanimation, c'est-à-dire des injections d'adrénaline dans le cœur ou des électrochocs. Certains “revenants” que la médecine avait considérés cliniquement morts après avoir préalablement constaté un arrêt cardiaque, une absence de respiration et d'activité cérébrale, confièrent les expériences étranges qui leur étaient alors advenues pendant ces instants.
Or, la similitude des descriptions, l'exactitude des récits excluaient tout rêve ou toute hallucination. C'est ce qui incita le médecin à voir là une preuve d'existence post-mortelle. Voilà un sujet épineux où l'on se heurte tant aux théologiens horrifiés à l'idée d'un éventuel blasphème qu'aux doctes gardiens de la Science! Le raisonnement scientifique ne saurait rien admettre qui ne soit entièrement évident et ne forme un tout cohérent; la pensée qui en résulte, disciplinée par la rigoureuse volonté d'ordonner selon une méthode la plupart du temps linéaire et déductive, va par étapes successives de la simplicité à la complexité dans un ordre logique et chronologique. Or, dans le présent cas, la finalité du témoignage peut être sujette au même doute que son contenu. Il est donc bien évident que les thèses alléguées par E. Kübler-Ross ne peuvent, dans le meilleur des cas, remporter l'unanimité du monde scientifique et, dans le pire, ne peuvent qu'être rejetées car la science accueille avec méfiance des assertions qu'elle juge a priori insanes.
Toutefois, comme si Jünger voulait imposer le silence aux contempteurs de théories qu'il semble lui partager, comme s'il doutait aussi de cette méthode scientifique dont on aperçoit les limites, il cite des autorités médicales, aussi ambiguës soient-elles, ou nous livre les réflexions d'un ami, Hartmut Blersch, médecin lui aussi de son état. Ce dernier, traitant des personnes âgées, a écrit une étude non éditée: “Die Verwandlung des Sterbens durch den Descensus ad infernos” [La transformation de l'agonie par la Descente aux Enfers] (13) et a permis à Jünger d'en inclure quelques extraits dans Les Ciseaux. Jünger a tourné le dos à l'intelligence rationnelle du discours et à certaines acquisitions du savoir scientifique il y a longtemps déjà. De nos jours, une telle approche, qualifiée d'irrationnelle invite ses représentants à douter de la validité, du sérieux que l'on pourrait accorder à une telle pensée, à voir dans cette réaction antimatérialiste une régression vers un nouvel obscurantisme. Il n'en est pas moins vrai que Jünger, s'inscrivant déjà dans toute une tradition, reflète les angoisses qui oppressent son temps. Car cette mythologie d'une vie post-mortelle exerce sur nos contemporains une fascination qui dépasse le simple divertissement.
Placidité et sagesse où la mort devient conquête
Les conceptions irrationnelles de Jünger ont toujours damé le pion à la divine raison. Ainsi avait-il conclu son ouvrage Approches, drogues et ivresse:
L'approche est confirmée par ce qui survient, ce qui est présent est complété par ce qui est absent. Ils se rencontrent dans le miroir qui efface temps et malaise. Jamais le miroir ne fut aussi vide, dépourvu ainsi de poussière et d'image —deux siècles se sont chargé de cela. En plus, le cognement dans l'atelier —le rideau devient transparent; la scène est libre (14).
C'est peut-être justement dans cette irrationalité que Jünger puise cette placidité et cette sagesse où la mort elle-même devient conquête. Esprit téméraire, Jünger s'est avancé, vigilant, vers ces régions où les ciseaux de la Parque ne tranchent pas.
Tout comme jadis où, jeune héros incontesté, il glorifiait l'instant dangereux, le vieil homme avait renoncé à l'histoire, à percevoir le temps de manière continue; il est demeuré fasciné par cette seconde brûlante où tout se joue, ce duel sans merci où la vie et la mort s'affrontent:
L'histoire n'a pas de but; elle est. La voie est plus importante que le but dans la mesure où elle peut, à tout instant, en particulier à celui de la mort devenir le but (15).
Isabelle FOURNIER.
Notes:
(1) Sgraffitti, [première parution, Antaios, 1960, Stuttgart] in Jüngers Werke, Bd. VII, Essays III, p. 354: «Wenn ein Mensch stirbt, wird sein Lebenslied im Äther gespielt. Er darf es mithören, bis er ins Schweigen übergeht. Er lauscht dann so aufmerksam inmitten der Qualen, der Unruhe. In jedem Fall war es ein großer Meister, der das Lied ersann. Doch kann es in seinem reinen Klange nur vernommen werden, wo der Wille erlischt, wo er der Hingabe weicht».
(2) Das abenteurliche Herz 1, Berlin, 1928 [1929], p. 76: «Das Leben ist eine Schleife, die sich im Dunkeln schürzt und löst. Vielleicht wird der Tod unser größtes und gefährlichstes Abenteuer sein, denn nicht ohne Grund sucht der Abenteurer immer wieder seine flammenden Ränder auf».
(3) Das abenteurliche Herz 2, Berlin, 1938 [1942], p. 38: «Er nannte den Tod die wundersamste Reise, die der Mensch vermöchte, ein wahres Zauberstück, die Tarnkappe aller Tarnkappen, auch die ironische Replik im ewigen Streit, die letzte und ungreifbare Burg aller Freien und Tapferen».
(4) An der Zeitmauer, [première parution Antaios, 1, 209-226], Stuttgart, 1959, p. 159: «Wer keine Todesfurcht kennt, steht mit Göttern auf vertrautem Fuß».
(5) Das abenteureliche Herz 2, ibid., p. 102: «[...] und weißt du, was ich glaube? Was wir hier leben, ist nur geträumt; wir erleben aber nach dem Tode dasselbe in Wirklichkeit».
(6) Novalis, Hymnen an die Nacht, Heinrich von Ofterdingen. Goldmann Verlag, Stuttgart, 1979, p. 161-162: «Die Welt wird Traum, der Traum wird Welt[...]/Wehmuth und Wollust, Tod und Leben/ Sind hier in innigster Sympathie».
(7) Das abenteureliche Herz 2, ibid. p. 83: «Im letzten Schimmer des Lichtes ahnte ich noch: Ich würde unzählige Male leben, demselben Mädchen begegnen, dieselbe Blume essen und daran zugrunde gehen, ebenso wie dies bereits unzählige Male geschehen war».
(8) voir à ce propos le symbolisme des couleurs dans le Cœur aventureux.
(9) Das abenteurliche Herz 1, ibid., p. 74: «Ach, du warst in abgebten Zeiten/ Meine Schwester oder meine Frau».
(10) Das abenteurliche Herz 1, ibid., p. 74: «Sind Berge, Wellen, Himmel nicht ein Teil von mir und meiner Seele, ich von ihnen?».
(11) Zwei Mal Halley, Stuttgart, 1987, p. 33: «Mich beschäftigt vielmehr seit langem die Frage des Überganges; ein irdener Becher wird in Gold verwandelt und dann in Licht. Daran beunruhigt nur eines: ob diese Erhöhung noch zur Kenntnis genommen wird, noch ins Bewußtsein fällt».
(12) Die Schere, Stuttgart, 1989, p. 173 sq.
(13)Schere, p. 173.
(14) Annäherungen, Drogen und Rausch, Stuttgart, 1970, [Ullstein, 1980], p. 348: «Annäherung wird durch Eintretendes bestätigt, Anwesendes durch Abwesendes ergänzt. Sie trefen sich im Spiegel, der Zeit und Unbehagen löscht. Nie war der Spiegel so leer, so ohne Staub und bildlos —dafür haben zwei Jahrhunderte gesorgt. Dazu das Klopfen in der Werkstatt— der Vorhang wird durchsichtig; die Bühne ist frei».
(15) Die Schere, ibid., p. 120: «Die Geschichte hat kein Ziel; sie existiert. Der Weg ist wichtiger als das Ziel, insofern, als er in jedem Augenblick vor allem in dem des Todes Ziel werden kann».
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samedi, 24 octobre 2009
Hommage à Ernst Jünger par Herbert Ammon, représentant de la gauche allemande
Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1998
Hommage à Ernst Jünger par Herbert Ammon, représentant de la gauche allemande
Certes, jamais je ne pourrai entièrement effacer mes réserves à l'égard de l'écrivain politique Ernst Jünger, exposant du “nouveau nationalisme” dans les années 20. Face à l'admiration a-critique, une question non historique: l'histoire allemande en ce siècle aurait-elle été moins terrible sans cette “mobilisation totale” contre le système de Versailles, inspirée par Nietzsche et Machiavel, le nihilisme et le réalisme héroïque? Avec la distance que nous a apportée le temps, le pathos de ces écrits militants nous semble étrange, en lisant les Orages d'acier, j'ai toujours distingué soigneusement entre l'esthétique de l'ouvrage et l'esthétique de la guerre. Ai-je ainsi fait des concessions à l'esprit gauchiste-libéral de la RFA élargie?
Intimidé par l'esprit “jüngerophobe” des feuilletons du Zeit de Hamburg, qui m'a accompagné pendant toutes mes années de lycée, j'appartiens —contrairement à cette génération de l'après-guerre qui a été l'avant-garde de la révolte juvénile de 68 et qui a donné à l'insurrection étudiante quelques traits typiquement allemands— à cette génération qui n'a lu l'œuvre du dernier des grands écrivains allemands de ce siècle que fort tard, qui ne l'a découvert qu'après de très longs détours. Certes, j'aurais pu me rapprocher de lui beaucoup plus tôt, car, pendant mes études, je suis tombé sur une anthologie des écrivains de la Beat Generation américaine, sur Howl d'Allen Ginsburg, sur Coney Island of the Mind de Ferlinghetti. L'éditeur de ces textes était Karl Otto Paetel, émigré aux Etats-Unis, protagonistes de cet espace d'entre-deux, homme de gauche de la droite allemande, dont l'esprit de résistance au nazisme découlait de son engagement précédent dans la jeunesse “bündisch” et de l'esprit qu'avait répandu Ernst Jünger. Paetel avait souligné la parenté entre la geste protestataire de la Beat Generation et les sentiments de Jünger, au temps il s'était inscrit dans le mouvement de jeunesse. Je n'ai lu Jeux africains qu'à l'âge adulte, quand il est trop tard pour cultiver et s'enthousiasmer de cette façon juvénile pour l'aventure.
A partir des écrits du jeune nationaliste Ernst Jünger, j'ai trouvé des références à Ernst Niekisch, après qu'un ignorant méchant et mal intentionné ait tenté de me dénigrer en me collant l'étiquette de “national-bolchevique”. En lisant Widerstand, la revue de Niekisch, on apprend combien complexes, contradictoires et marginales étaient les voies de la résistance allemande. Pourtant les faits sont là: la “Rose Blanche” avait à voir avec le mouvement “d.j.1.11” d'Eberhard Köbel (dit “tusk”) et donc aussi avec Ernst Jünger; mais cette évidence historique est délibérément ignorée par le catalogue des bonnes vertus que veut nous faire avaler l'établissement bundesrepublikanisch.
Tard, fort tard, j'ai lu, pendant une lumineuse journée d'été, les Falaises de marbre. Quand on prend acte de l'œuvre de Jünger, on est généralement saisi par le doute, on découvre le geste de l'anarque, l'esthétique pure de la désinvolture, les jeux idéologiques du jeune Jünger. Mais ce glissement est démenti par une bonne lecture des Falaises de marbre. Il n'y a aucun doute, Ernst Jünger appartient au cercle des plus grands écrivains de ce XXième siècle. Nous, qui sommes nés après lui, après les guerres, jetterons un regard rétrospectif sur ce siècle qu'il a vécu tout entier, ce siècle des idéologies totalitaires. Réfléchissons aussi à la vanité de la résistance allemande que Jünger avait deviné anticipativement dans ses écrits, réfléchissons au hasard qui a permis la mémorable journée du 9 novembre 1989, alors nous connaîtrons “la sauvage mélancolie, qui s'empare de nous quand on se souvient du bonheur”.
Herbert AMMON.
(hommage extrait de Junge Freiheit, n°9/98).
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mercredi, 21 octobre 2009
Revoluçao Conservadora, forma catolica e "ordo aeternus" romano
Revolução Conservadora, forma católica e “ordo aeternus” romano
A Revolução Conservadora não é somente uma continuação da «Deutsche Ideologie» romântica ou uma reactualização das tomadas de posição anti-cristãs e helenistas de Hegel (anos 1790-99) ou uma extensão do prussianismo laico e militar, mas tem também o seu lado católico romano. Nos círculos católicos, num Carl Schmitt por exemplo, como nos seus discípulos flamengos, liderados pela personalidade de Victor Leemans, uma variante da Revolução Conservadora incrusta-se no pensamento católico, como sublinha justamente um católico de esquerda, original e verdadeiramente inconformista, o Prof. Richard Faber de Berlim. Para Faber, as variantes católicas da RC renovam não com um Hegel helenista ou um prussianismo militar, mas com o ideal de Novalis, exprimido em Europa oder die Christenheit: este ideal é aquele do organon medieval, onde, pensam os católicos, se estabeleceu uma verdadeira ecúmena europeia, formando uma comunidade orgânica, solidificada pela religião.Der Glanz, die Macht ist dahin» [«Estamos no fim, a Áustria está morta. O Esplendor e o Poder desapareceram»].
Depois do retrocesso e da desaparição progressiva deste organon vivemos um apocalipse, que se vai acelerando, depois da Reforma, a Revolução francesa e a catástrofe europeia de 1914. Desde a revolução bolchevique de 1917, a Europa, dizem estes católicos conservadores alemães, austríacos e flamengos, vive uma Dauerkatastrophe. A vitória francesa é uma vitória da franco-maçonaria, repetem. 1917 significa a destruição do último reduto conservador eslavo, no qual haviam apostado todos os conservadores europeus desde Donoso Cortés (que era por vezes muito pessimista, sobretudo quando lia Bakunine). Os prussianos haviam sempre confiado na aliança russa. Os católicos alemães e austríacos também, mas com a esperança de converter os russos à fé romana. Enfim, o abatimento definitivo dos “estados” sociais, inspirados na época medieval e na idade barroca (instalados ou reinstalados pela Contra-Reforma) mergulha os conservadores católicos no desespero. Helena von Nostitz, amiga de Hugo von Hoffmannstahl, escreve «Wir sind am Ende, Österreich ist tot.
Num tal contexto, o fascismo italiano, contudo saído da extrema-esquerda intervencionista italiana, dos meios socialistas hostis à Áustria conservadora e católica, figura como uma reacção musculada da romanidade católica contra o desafio que lança o comunismo a leste. O fascismo de Mussolini, sobretudo depois dos acordos de Latrão, recapitula, aos olhos destes católicos austríacos, os valores latinos, virgilianos, católicos e romanos, mas adaptando-os aos imperativos da modernidade.
É aqui que as referências católicas ao discurso de Donoso Cortés aparecem em toda a sua ambiguidade: para o polemista espanhol a Rússia arriscava converter-se ao socialismo para varrer pela violência o liberalismo decadente, como teria conseguido se tivesse mantido a sua opção conservadora. Esta evocação da socialização da Rússia por Donoso Cortés permite a certos conservadores prussianos, como Moeller van den Bruck, simpatizar com o exército vermelho, para parar a Oeste os exércitos ao serviço do liberalismo maçónico ou da finança anglo-saxónica, ainda mais porque depois do tratado de Rapallo (1922), a Reichswehr e o novo exército vermelho cooperam. O reduto russo permanece intacto, mesmo se mudou de etiqueta ideológica.
Hugo von Hoffmannstahl, em Das Schriftum als geistiger Raum der Nation [As cartas como espaço espiritual da Nação] utiliza pela primeira vez na Alemanha o termo “Revolução Conservadora”, tomando assim o legado dos russos que o haviam precedido, Dostoievski e Yuri Samarine.
Para ele a RC é um contra-movimento que se opõe a todas as convulsões espirituais desde o século XVI. Para Othmar Spann, a RC é uma Contra-Renascença. Quanto a Eugen Rosenstock( que é protestante), escreve: «Um vorwärts zu leben, müssen wir hinter die Glaubensspaltung zurückgreifen» [Para continuar a viver, seguindo em frente, devemos recorrer ao que havia antes da ruptura religiosa]. Para Leopold Ziegler (igualmente protestante) e Edgard Julius Jung (protestante), era preciso uma restitutio in integrum, um regresso à integralidade ecuménica europeia, Julius Evola teria dito: à Tradição. Eles queriam dizer por aquilo que os Estados não deviam mais opor-se uns aos outros mas ser reconduzidos num “conjunto potencializador”.
Se Moeller van den Bruck e Eugen Rosenstock actuam em clubes, como o Juni-Klub, o Herren-Klub ou em círculos que gravitam em torno da revista de sociologia, economia e politologia Die Tat, os que desejam manter uma ética católica e cuja fé religiosa subjuga todo o comportamento, reagrupam-se em “círculos” mais meditativos ou em ordens de conotação monástica. Richard Feber calcula que estas criações católicas, neo-católicas ou para-católicas, de “ordens”, se efectuaram a 4 níveis:
1) No círculo literário e poético agrupado em torno da personalidade de Stefan George, aspirando a um “novo Reich”, isto é, um “novo reino” ou um “novo éon”, mais do que a uma estrutura política comparável ao império dos Habsbourg ou ao dos Hohenzollern.
2) No “Eranos-Kreis” (Círculo Eranos) do filósofo místico Derleth, cujo pensamento se inscreve na tradição de Virgílio ou Hölderlin, colocando-se sob a insígnia de uma “Ordem do Christus- Imperator”.
3) Nos círculos de reflexão instalados em Maria Laach, na Renânia-Palatinado, onde se elaborava uma espécie de neo-catolicismo alemão sob a direcção do teólogo Peter Wust, comparável, em muitos aspectos, ao “Renouveau Catholique” de Maritain na França (que foi próximo, a dado momento, da Acção Francesa) e onde a fé se transmitia aos aprendizes particularmente por uma poesia derivada dos cânones e das temáticas estabelecidas pelo “Circulo” de Stefan George em Munique-Schwabing desde os anos 20.
4) Nos movimentos de juventude, mais ou menos confessionais ou religiosos, particularmente nas suas variantes “Bündisch”, bom número de responsáveis desejavam introduzir, por via das suas ligas ou das suas tropas, uma “teologia dos mistérios”.
As variantes católicas ou catolizantes, ou pós-católicas, preconizaram então um regresso à metafísica política, no sentido em que queriam uma restauração do “Ordo romanus”, “Ordem romana”, definida por Virgílio como “Ordo aeternus”, “ordem eterna”. Este catolicismo apelava à renovação com esse “Ordo aeternus” romano que, na sua essência, não era cristão mas a expressão duma paganização do catolicismo, explica-nos o cristão católico de esquerda Richard Faber, no sentido em que, neste apelo à restauração do “Ordo romanus/aeternus”, a continuidade católica não é já fundamentalmente uma continuidade cristã mas uma continuidade arcaica. Assim, a “forma católica” veicula, cristianizando-a (na superfície?), a forma imperial antiga de Roma, como assinalou igualmente Carl Schmitt em Römischer Katholizismus und politische Form (1923). Nessa obra, o politólogo e jurista alemão lança de alguma maneira um duplo apelo: à forma (que é essencialmente, na Europa, romana e católica, ou seja, universal enquanto imperial e não imediatamente enquanto cristã) e à Terra (esteio incontornável de toda a acção política), contra o economicismo volúvel e hiper-móvel, contra a ideologia sem esteio que é o bolchevismo, aliado objectivo do economicismo anglo-saxónico.
Para os proponentes deste catolicismo mais romano que cristão, para um jurista e constitucionalista como Schmitt, o anti-catolicismo saído da filosofia das Luzes e do positivismo cienticista( referências do liberalismo) rejeita de facto esta matriz imperial e romana, este primitivismo antigo e fecundo, e não o eudemonismo implícito do cristianismo. O objectivo desta romanidade e desta “imperialidade” virgiliana consiste no fundo, queixa-se Faber, que é um anti-fascista por vezes demasiado militante, em meter o catolicismo cristão entre parênteses para mergulhar directamente, sem mais nenhum derivativo, sem mais nenhuma pseudo-morfose (para utilizar um vocábulo spengleriano), no “Ordo aeternus”.
Na nossa óptica este discurso acaba ambíguo, porque há confusão permanente entre Europa e Ocidente. Com efeito, depois de 1945, o Ocidente, vasto receptáculo territorial oceânico-centrado, onde é sensato recompor o “Ordo romanus” para estes pensadores conservadores e católicos, torna-se a Euroamérica, o Atlantis: paradoxo difícil de resolver, porque como ligar os princípios “térreos” (Schmitt) e os da fluidez liberal, hiper-moderna e economicista da civilização “estado-unidense”?
Para outros, entre o Oriente bolchevizado e pós-ortodoxo e o Hiper-Ocidente fluido e ultra-materialista, deve erguer-se uma potência “térrea”, justamente instalada sobre o território matricial da “imperialidade” virgiliana e carolíngia, e esta potência é a Europa em gestação. Mas com a Alemanha vencida, impedida de exercer as suas funções imperiais pós-romanas uma translatio imperii (translação do império) deve operar-se em beneficio da França de De Gaulle, uma translação imperii ad Gallos, temática em voga no momento da reaproximação entre De Gaulle e Adenauer e mais pertinente ainda no momento em que Charles De Gaulle tenta, no curso dos anos 60, posicionar a França “contra os impérios”, ou seja, contra os “imperialismos”, veículos da fluidez mórbida da modernidade anti-política e antídotos para toda a forma de fixação estabilizante (NdT. Daqui presume-se uma distinção entre imperialismo e imperialidade, daí o uso dos dois conceitos).
Se Eric Voegelin tinha teorizado um conservantismo em que a ideologia derivava da noção de “Ordo romanus”, ele colocava o seu discurso filosófico-político ao serviço da NATO, esperando deste modo uma fusão entre os princípios “fluidos” e “térreos” (NdT. naturalmente esta dicotomia que o autor usa recorrentemente no texto é uma referência à tradicional oposição entre ordenamentos marítimos e terrestres), o que é uma impossibilidade metafísica e prática. Se o tandem De Gaulle-Adenauer se referia também, sem dúvida, no topo, a um projecto derivado da noção de “Ordo aeternus”, colocava o seu discurso e as suas práticas, num primeiro momento (antes da viagem de De Gaulle a Moscovo, à América Latina e antes da venda dos Mirage à Índia e do famosos discursos de Pnom-Penh e do Quebeque), ao serviço de uma Europa mutilada, hemiplégica, reduzida a um “rimland” atlântico vagamente alargado e sem profundidade estratégica. Com os últimos escritos de Thomas Molnar e de Franco Cardini, com a reconstituição geopolítica da Europa, este discurso sobre o “Ordo romanus et aeternus” pode por fim ser posto ao serviço de um grande espaço europeu, viável, capaz de se impor sob a cena internacional. E com as proposições de um russo como Vladimir Wiedemann-Guzman, que percepciona a reorganização do conjunto euro-asiático numa “imperialidade” bicéfala, germânica e russa, a expansão grande-continental está em curso, pelo menos no plano teórico. E para terminar, parafraseando De Gaulle: A estrutura administrativa acompanhá-la-á?
Robert Steuckers
00:10 Publié dans Révolution conservatrice | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : révolution conservatrice, allemagne, rome, rome antique, catholicisme, religion, carl schmitt | |
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lundi, 19 octobre 2009
Ernst Krieck (1882-1947)
KRIECK Ernst, 1882-1947
Né à Vögisheim en pays de Bade le 6 juillet 1882, ce pédagogue entame une carrière d'instituteur en 1900, puis de directeur d'école primaire, pour devenir, après s'être formé en autodidacte, docteur honoris causa de l'Université de Heidelberg en 1923. En 1928, Krieck est nommé à l'«Académie pédagogique» de Francfort s.M. Ses convictions nationales-socialistes lui valent plusieurs mesures disciplinaires. Après la prise du pouvoir par Hitler, il est nommé professeur ordinaire à Francfort. De 1934 à 1945, il enseigne à Heidelberg. Avec ses amis M.R. Gerstenhauer et Werner Kulz, il édite de 1932 à 1934 la revue Die Sonne, fondée en 1924. A partir de 1933, il publie seul la revue Volk im Werden. Il collabore dans le même temps à plusieurs publications consacrées à la pédagogie. L'objectif de ses études historiques sur la pédagogie était d'ordre philosophique, écrit-il, car elles visaient à cerner le noyau commun de tous les modes d'éducation, juif, grec, romain, médiéval, allemand (de l'humanisme de la Renaissance au rationalisme du XVIIIième et de celui-ci au romantisme national(iste)). A partir de 1935, Krieck abandonne la pédagogie stricto sensu pour vouer tous ses efforts à l'élaboration d'une anthropologie «völkisch» au service du nouveau régime.
Krieck est surtout devenu célèbre pour sa polémique contre Heidegger, amorcée dans les colonnes de Volk im Werden et dans son discours de Rectorat à l'Université de Francfort prononcé le 23 mai 1933. Outre sa polémique agressive et sévère contre le langage abstrait, calqué sur les traditions grecques et juives, de l'auteur de Sein und Zeit, Krieck reprochait à Heidegger de vouloir sauver la philosophie, la «plus longue erreur de l'humanité hespériale», une erreur qui consiste à vouloir «refouler et remplacer le réel par le concept». Refoulement et oblitération du réel qui conduisent au nihilisme. Partisan inconditionnel de l'hitlérisme, Krieck affirme que la révolution nationale-socialiste dépassera ce nihilisme engendré par la dictature des concepts. Reviendra alors le temps des poètes homériques, inspirés par le «mythe», et des «historiens» en prise directe sur les événements politiques, dont l'ancêtre génial fut Hérodote, l'ami du tragédien Sophocle. Figure emblématique de la Terre-mère, idée mobilisatrice de la Vie, puissance du destin, sentiment tragique de l'existence, cosmos, sont les mots-clefs de cette pensée du pédagogue Krieck, en guerre contre la philosophie du concept. Le règne du logos, inauguré par Héraclite d'abord, puis surtout par Platon, l'ennemi des poètes, conduit les hommes à vivre dans un monde aseptisé, inerte, dépourvu de tragédie: le «monde des idées» ou de l'Etre. La pensée doit donc faire retour au charnel grouillant et bouillonant, aux matrices (Mutterschoß et Mutterboden), aux «lois incontournables du sang et de la race», dans un maëlstrom de faits et de défis sans cesse effervescent, ne laissant jamais aucun repos à la volonté, cette force intérieure qui arraisonne ce réel inépuisablement fécond.
Interné dans le camp de concentration de Moosberg en 1945, pour son appartenance aux cadres de la NSDAP, Krieck y meurt le 19 mars 1947.
L'idée de l'Etat allemand (Die deutsche Staatsidee), 1934
L'intérêt de cet ouvrage est de nous livrer une histoire de la pensée politique allemande, telle que peut la concevoir un vitaliste absolu qui adhère au mouvement hitlérien. Pour Krieck, les sources de l'Etat moderne résident dans l'absolutisme, instauré graduellement à partir de la fin du XVième siècle. Avant l'absolutisme règnait en Allemagne le droit communautaire germanique. L'irruption dans le discours politique de l'idée et de l'idéologie du droit naturel est le fruit du rationalisme et du mathématisme du XVIIième siècle, renforcé au cours du XVIIIième et trouvant son apothéose chez Kant. Dans l'optique du droit naturel et du rationalisme, le droit et l'Etat sont des formes aprioristiques de l'esprit et ne sont pas le résultat d'un travail, d'une action, d'une aventure historique tragique. En ce sens, le droit naturel est abstrait, explique Krieck. C'est une pensée politique idéaliste et non organique. Krieck définit ce qu'est pour lui l'organique: c'est l'unité vivante qu'il y a dans un être à composantes multiples. C'est la constance que l'on peut observer malgré les mutations successives de forme et de matière. C'est, enfin, l'immuabilité idéelle de certains traits essentiels ou de caractère. Le libéralisme s'est opposé au constructivisme absolutiste; en Angleterre, il vise à limiter l'emprise de l'Etat et à multiplier les droits politiques pour la classe possédante. En France, depuis la révolution jacobine, tout le poids décisionnaire de l'appareil étatique bascule entre les mains de la majorité électorale sans tenir compte des intérêts des oppositions. En Allemagne, le libéralisme anti-absolutiste est d'une autre nature: il est essentiellement culturel. Ses protagonistes entendent sans cesse se former et se cultiver car le droit à l'épanouissement culturel est le premier des droits de l'homme. L'Etat libéral allemand doit par conséquent devenir une sorte d'institut d'éducation éthique permanente. Dans cette optique, sont condamnables toutes les forces qui contrarient le développement de l'éducation. Humboldt est la figure emblématique de ce libéralisme. Krieck entend mettre les «illusions» de Humboldt en exergue: la figure de proue du libéralisme culturaliste allemand croit que l'homme, dès qu'il est libéré du joug de l'absolutisme, va spontanément adhérer à l'idéal de la culture. Cette vision idéalisée de l'homme est désincarnée et l'Etat se trouve réduit à un rôle minimal, même s'il est sublime. Humboldt a raison de dire que l'énergie est la première des vertus de l'homme mais l'idéal qu'il propose est, lui, dépourvu d'énergie, de socle dynamisant. L'humanité, contrairement à ce que croit Humboldt, ne se déploie pas dans l'espace en harmonie mais à partir d'une lutte constante entre entités vitales supra-personnelles. Il y a émergence d'une Bildung originale là où s'affirme une force dans une lutte qui l'oppose à des résistances. Mais quand on parle de force, on doit toujours parler en terme d'holicité et non d'individu. Une force est toujours collective/communautaire et révèle dans le combat son idée motrice, créatrice d'histoire. Humboldt, dit Krieck, est prisonnier d'une méthodologie individualiste, héritée de l'Aufklärung. Or la Bildung n'est pas le produit d'une individualité mais le reflet du meilleur du peuple, sinon elle ne serait qu'originalité inféconde. L'Etat doit organiser la Bildung et l'imposer à tout le corps social/populaire. Affirmer ce rôle de l'Etat: voilà le pas que n'a pas franchi Humboldt. Il rejette l'absolutisme et la bureaucratie, qui en découle, comme des freins à l'épanouissement de la Bildung sans conjuguer l'idée d'un Etat éthique avec l'idéal de cette Bildung.
L'Etat doit être la puissance éducatrice et «éthicisante» du peuple. Krieck reprend à son compte, dans sa synthèse, l'héritage de l'Aufklärung selon l'agitateur et pédagogue rousseauiste Basedow. Au XVIIIième siècle, celui-ci militait pour que l'Etat —et non plus l'Eglise— organise un système d'enseignement cohérent et fondateur d'une élite politique. Après l'échec de la vieille Prusse devant les canons napoléoniens, la pensée allemande prend conscience de la nécessité de structurer le peuple par l'éducation. Krieck rappelle une parole de Fichte qui disait que l'Etat allemand qui aurait pour programme de faire renaître la nation par l'éducation, tout en promouvant l'idée de l'Etat éducateur, en tirerait le maximum de gloire. Dans cette perspective pédagogisante fichtéenne/krieckienne, l'Etat, c'est l'organisation des moyens éducatifs au bénéfice de ses objectifs propres. Krieck se réfère ensuite au Baron von Stein qui avait la volonté de fusionner trois grands courants d'idées en Allemagne: le prussianisme (avec son sens du devoir et du service), l'idée de Reich et l'idée culturelle/spirituelle de Nation. De cette volonté de fusion découlait une vision originale de ce que doit être l'éducation: faire disparaître les disharmonies existant au sein du peuple et provoquées par les querelles entre états (Stände), de façon à ce que «chaque ressortissant du Volk puisse déployer ses forces dans un sens moral». Stein ne se contente donc pas de vouloir éliminer des barrières mais veut très explicitement diriger et encadrer le peuple façonné par la Bildung. L'éducation fait de l'Etat un organisme animé (beseelter Organismus) qui transmet sa force aux générations futures. Pour Fichte —et en écho, pour Krieck— l'éducation doit susciter une Tatbereitschaft, c'est-à-dire une promptitude à l'action, un ensemble de sentiments puissants qui, ajoutera ultérieurement Schleiermacher, donne une âme à l'Etat et cesse d'en faire un simple jeu de mécanismes et d'engrenages. Hardenberg est une autre figure de la Prusse post-napoléonienne qu'analyse Krieck. Souvent cité en même temps que Stein, Hardenberg est toutefois moins radical, parce que plus lié aux anciennes structures absolutistes: il prône un laissez-faire d'inspiration anglaise (Adam Smith) et ne conçoit l'Etat que comme police. Pour Krieck, c'est là une porte ouverte au primat de l'économie sur l'éducation, à l'emprise du manchesterisme et du monopolisme ploutocratique à l'américaine sur le devenir de la nation.
Krieck critique Schelling, personnage jugé par lui trop aristocratique, trop isolé du peuple, et qui, par conséquent, a été incapable de formuler une philosophie satisfaisante de l'Etat et de l'histoire. En revanche, certaines de ses intuitions ont été géniales, affirme Krieck. L'Etat, pour Schelling, n'est plus une «œuvre d'art», le produit d'une technique, mais le reflet de la vie absolue. Droit et Etat, chez Schelling, n'existent pas a priori pour qu'il y ait équilibre dans la vie mais l'équilibre existe parce que la vie existe, ce qui corrobore l'idée krieckienne qu'il n'y a que la vie, sans le moindre arrière-monde. Krieck regrette que Schelling ait enfermé cette puissante intuition dans une démarche trop esthétisante. Adam Müller complète Schelling en politisant, historicisant et économicisant les thèses de son maître à penser. Krieck énumère ensuite les mérites de Hegel. L'idée de l'Etat éducateur connaît par la suite des variantes conservatrices, réformistes et économistes. Les conservateurs cultivent l'idéal médiévisant d'un Etat corporatiste (Ständestaat) mais centralisé: ils retiennent ainsi les leçons de l'Aufklärung et de la révolution. Paul de Lagarde est un précurseur plus direct de l'Etat éducateur national-socialiste, qui ramasse toutes les traditions politiques allemandes, les fusionne et les ancre dans la réalité. Lagarde affirmait, lui aussi, que le premier but de la politique, c'était l'éducation: «la politique est à mon avis rien d'autre que pédagogie, tant vis-à-vis du peuple que vis-à-vis des princes et des hommes d'Etat». Dans cet ouvrage datant des premiers mois de la prise du pouvoir par Hitler, Krieck propose pour la première fois de transposer ses théories pédagogiques dans le cadre du nouveau régime qui, croit-il, les appliquera.
Anthropologie politique völkisch (Völkisch-politische Anthropologie), 1936
Les fondements du réel politique sont biologiques: ils relèvent de la biologie universelle. Tel est la thèse de départ de l'anthropologie völkisch de Krieck. La biologie pose problème depuis le XVIIIième siècle, où elle est entrée en opposition au «mécanicisme copernicien». La «Vie» est alors un concept offensif dirigé contre les philosophies mécanicistes de type cartésien ou newtonien; ce concept réclame l'autonomie de la sphère vitale par rapport aux lois de la physique mécanique. L'épistémologie biologique, depuis ses premiers balbutiements jusqu'aux découvertes de Mendel, a combattu sur deux fronts: contre celui tenu par les théologiens et contre celui tenu par les adeptes des philosophies mécanicistes. Leibniz avait évoqué la téléologie comme s'opposant au mécanicisme universel en vogue à son époque. Les théologiens, pressentant l'offensive de la biologie, ont mis tout en œuvre pour que la téléologie retourne à la théologie et ne se «matérialise» pas en biologie. Le débat entre théologiens et «réalitaires biologisants» a tourné, affirme, Krieck, autour du concept aristotélicien d'entéléchie, revu par Leibniz, pour qui l'entéléchie est non plus l'état de l'être en acte, pleinement réalisé, mais l'état des choses qui, en elles, disposent d'une suffisance qui les rend sources de leurs actions internes. La biologie est donc la science qui étudie tout ce qui détient en soi ses propres sources vitales, soit les êtres vivants, parmi lesquels les peuples et les corps politiques.
Pour Krieck, la Vie est la réalité totale: il n'y a rien ni derrière ni avant ni après la Vie; elle est un donné originel (urgegeben), elle est l'Urphänomen par excellence dans lequel se nichent tous les autres phénomènes du monde et de l'histoire. La conscience est l'expression de la Vie, du principe vital omni-englobant. Les peuples, expressions diverses de cette Vie, tant sur le plan phénoménal que sur le plan psychique, sont englobés dans cette totalité vitale. Le problème philosophique que Krieck cherche à affronter, c'est de fonder une anthropologie politique où le peuple est totalité, c'est-à-dire base de Vie, source vitale, où puisent les membres de la communauté populaire (les Volksgenoßen) pour déployer leurs énergies dans le cosmos. Tout peuple est ainsi une niche installée dans le cosmos, où ses ressortissants naissent et meurent sans cesser d'être reliés à la totalité cosmique. L'idée de Vie dépasse et englobe l'idée évangélique de l'incarnation car elle pose l'homme comme enraciné dans son peuple de la même façon que le Christ est incarné en Dieu, son Père, sans que l'homme ne soit détaché de ses prochains appartenant à la même communauté de sang. Le cycle vital transparaît dans la religiosité incarnante (incarnation catholique mais surtout mystique médiévale allemande), qui est une religion de valorisation du réel qui, pour l'homme, apparaît sous des facettes diverses: humanité, Heimat, race, peuple, communauté politique, communauté d'éducation, etc. Dans la sphère de l'Etat, se trouvent de multiples Volksordnungen, d'ordres dans le peuple, soit autant de niches où les individus sont imbriqués, organisés, éduqués (Zucht) et policés. Krieck oppose ensuite l'homme sain à l'homme malade; la santé, c'est de vivre intensément dans le réel, y compris dans ses aspects désagréables, en acceptant la mort (sa mort) et les morts. Cette santé est le propre des races héroïques dont les personnalités se perçoivent comme les maillons dans la chaîne des générations, maillons éduqués, marqués par l'éthique de la responsabilité et par le sens du devoir. Les hommes malades —c'est-à-dire les esclaves et les bourgeois— fuient la mort et la nient, éloignent les tombes extra muros, indice que l'idée d'une chaîne des générations a disparu.
Caractère du peuple et conscience de sa mission. L'éthique politique du Reich (Volkscharakter und Sendungsbewußtsein. Politische Ethik des Reiches), 1940
Cet ouvrage de Krieck comprend deux volets: 1) une définition du caractère national allemand; 2) une définition de la «mission» qu'implique l'idée de Reich. Le caractère national allemand a été oblitéré par la christianisation, même si les Papes évangélisateurs des régions germaniques ont été conscients du fait que l'esprit chrétien constituait une sorte d'Übernatur, d'adstrat artificiel imposé à l'aide de la langue latine, qui recouvrait tant bien que mal une naturalité foncièrement différente. Le Moyen Age a été marqué par un christianisme véhiculant les formes mortes de l'Antiquité. Seuls les Franciscains ont laissé plus ou moins libre cours à la religiosité populaire et permis au Lied allemand de prendre son envol. La Renaissance, l'humanisme et le rationalisme n'ont fait que séculariser une culture détachée du terreau populaire. Le national-socialisme est la révolution définitive qui permettra le retour à ce terreau populaire refoulé. Il sera la pleine renaissance de la Weltanschauung germanique, qui relaie et achève les tentatives avortées d'Albert le Grand, d'Eike von Repgow, de Walther von der Vogelweide, de Maître Eckehart, de Nicolas de Cues, de Luther, de Paracelse, etc. Sans cesse, l'Allemagne a affirmé son identité nationale grâce à un flux continu venu du Nord. S'appuyant sur les thèses du scandinaviste Grönbech, Krieck parle du sentiment nordique de la communauté, du service dû à cette communauté et à la volonté de préserver son ancrage spirituel contre les influences étrangères. Pour Grönbech et Krieck, l'individu ne s'évanouit pas dans la communauté mais résume en lui cette communauté dont les ressortissants partagent les mêmes sentiments, les mêmes projets, le même passé, le même présent et, res sic stantibus, le même avenir. Ce destin commun s'exprime dans l'honneur, la Ehre.
Krieck insiste sur la notion de Mittgart (ou Midgard) qui, dans la mythologie germanique/scandinave, désigne le monde intermédiaire entre l'Asgard (le monde des Ases, le monde de lumière) et l'Utgard (le monde de l'obscurité). Ce Mittgart est soumis au devenir (urd) et aux caprices des Nornes. C'est un monde de tensions perpétuelles, de luttes, de dynamique incessante. Les périodes de paix qui ensoleillent le Mittgart sont de brefs répits succédant à des victoires jamais définitives sur les forces du chaos, émanant de l'Utgard. Le mental nordique retient aussi la notion de Heil, une force agissante et fécondante, à connotations sotériologiques, qui anime une communauté. Cette force induit un flux ininterrompu de force qui avive la flamme vitale d'une communauté ou d'une personne et accroît ses prestations. Le substrat racial nordique irradie une force de ce type et génère un ordre axiologique particulier qu'il s'agit de défendre et d'illustrer. La foi nouvelle qui doit animer les hommes nouveaux, c'est de croire à leur action pour fonder et organiser un Reich, un Etat, un espace politique, pour accoucher de l'histoire.
Le droit doit devenir le droit des hommes libres à la façon de l'ancien droit communautaire germanique, où le Schöffe (le juge) crée sans cesse le droit, forge son jugement et instaure de la sorte un droit vivant, diamétralement différent du droit abstrait, dans la mesure où il est porté par la «subjectivité saine d'un homme d'honneur». Le droit ancestral spontané a été oblitéré depuis la fin du XVième siècle par le droit pré-mécaniciste de l'absolutisme, issu du droit romain décadent du Bas-Empire orientalisé. L'avénement de ce droit absolutiste ruine l'organisation sociale germanique de type communautaire. Néanmoins, au départ, l'absolutisme répond aux nécessités de la nouvelle époque; le Prince demeure encore un primus inter pares, responsable devant ses conseils. Le césaro-papisme, impulsé par l'Eglise, introduit graduellement le «despostisme asiatique», en ne responsabilisant le Prince que devant Dieu seul. Les pares se muent alors en sujets. L'arbitraire du Prince fait désormais la loi (Hobbes: auctoritas non veritas facit legem; Louis XIV: L'Etat, c'est moi!). Dans ces monarchies ouest-européennes, il n'y a plus de Reich au sens germanique, ni d'états mais un Etat. Le droit est concentré en haut et chichement dispersé en bas. Les devoirs, en revanche, pèsent lourdement sur les épaules de ceux qui végètent en bas et ne s'adressent guère à ceux qui gouvernent en haut. La révolution bourgeoise transforme les sujets en citoyens mais dépersonnalise en même temps le pouvoir de l'Etat et du souverain tout en absolutisant la structure dans laquelle sont enfermés les citoyens. Dans cette fiction règne le droit du plus puissant, c'est-à-dire, à l'âge économiste, des plus riches. L'essence de la justice se réfugie dans l'abstraction du «pur esprit», propre de l'humanisme kantien ou hégelien, une pensée sans socle ni racines. Cette idéologie est incapable de forger un droit véritablement vivant, comme le montre la faillite du système bismarckien, forgé par les baïonnettes prussiennes et la poigne du Chancelier de fer, mais rapidement submergé par l'éclectisme libéral et le marxisme, deux courants politiques se réclamant de ce droit universaliste-jusnaturaliste sans racines.
Krieck définit ensuite la Vie, vocable utilisé à profusion par toutes les écoles vitalistes, comme un «cosmos vivant», un All-Leben. Ce dynamisme de l'All-Leben, nous le trouvons également chez les Grecs d'avant Socrate et Platon. Mais les Grecs ont très tôt voulu freiner le mouvement, bloquer le dynamisme cosmique au profit d'un statisme et de formes (en autres, de formes politiques) fermées: la Polis, l'art classique, expressions du repos, de quiétisme. Les Germains n'ont pas connu ce basculement involutif du devenir à l'Etre. L'aristotélisme médiéval n'a pas oblitéré le sens germanique du devenir: le monachisme occidental et la scolastique n'ont jamais été pleinement quiétistes. Cluny et les bénédictins ont incarné un monachisme combattant donc dynamique, même si ce dynamisme a été, en fin de compte, dirigé par Rome contre la germanité. Après cette phase combattante seulement, la scolastique s'est détachée du dynamisme naturel des peuples germaniques, a provoqué une césure par rapport à la vie, césure qui a trouvé ultérieurement ses formes sécularisées dans le rationalisme et l'idéalisme, contesté par le romantisme puis par la révolution nationale-socialiste.
En proposant une «caractérologie comparée» des peuples, Krieck part d'une théorie racisante: les peuples produisent des valeurs qui sont les émanations de leur caractère biologiquement déterminé. Derrière toutes les écoles philosophiques, qu'elles soient matérialistes, idéalistes, logiques, sceptiques —orientations que l'on retrouve chez tous les peuples de la Terre— se profile toujours un caractère racialement défini. Les Allemands, tant dans leurs périodes de force (comme au Haut Moyen Age ottonien) que dans leurs périodes de faiblesse (le Reich éclaté et morcelé d'après 1648), se tournent spontanément vers le principe d'All-Leben, de cosmicité vitale, contrairement aux peuples de l'Ouest, produits d'une autre alchimie raciale, qui suivent les principes cartésiens et hobbesiens du pan-mécanicisme (All-Mechanistik). La pensée chinoise part toujours d'une reconnaissance du Tao universel et vise à y adapter la vie et ses particularités. L'ethos chinois exprime dès lors repos, durée, équilibre, régularité, déroulement uniforme de tout événement, agir et comportement. La pensée indienne résulte du mélange racial sans doute le plus complexe de la Terre. Contrairement à la Chine homogène, l'Inde exclut la réminiscence historique, la conscience historique et est, d'une certaine façon, impolitique. Autre caractéristique majeure de l'âme indienne, selon Krieck: l'ungeheure Triebhaftigkeit, la foisonnante fécondité des pulsions et la prolifération des expressions de la vie: fantaisie et spéculation, désir (Begier) et contemplation, sexualité et ascèse, systématique philosophique et méthodique psycho-technique, etc. Cette insatiabilité des pulsions fait de l'Inde le pôle opposé de la Grèce (mises à part certaines manifestations de l'hellénisme): l'âme indienne submerge toujours la forme dans l'informel, le démesuré, les figures grimaçantes et grotesques. L'hybris, faute cardinale chez les Grecs, est principe de vie en Inde: le roi n'y a jamais assez de puissance, l'ascète n'y est jamais assez ascétique, etc. Le génie grec, quant à lui, est génie de la mesure, de l'équilibre intérieur de la forme.
Le mécanicisme newtonien est l'expression du caractère anglais, surtout quand il met en exergue l'antagonisme des forces. Cet antagonisme s'exprime par ailleurs dans le bipartisme de la vie politique anglaise, dans la concurrence fairplay de la sphère économique, dans le sport. Le génie français (Descartes, Pascal, d'Alembert, H. Poincaré) procède d'une méthode analytique et géométrique. Ce géométrisme se perçoit dans l'architecture des jardins, de la poésie, de l'art dramatique du XVIIième siècle et du rationalisme politique centralisateur de la révolution de 1789.
Conclusion de Krieck: le peuple allemand est le seul peuple suffisamment homogène pour adhérer directement à la Vie sans le détour mutilant des schémas mécanicistes, du logos ou de la «philosophie de l'Etre». Adhésion à la vie qui s'accompagne toujours d'une discipline intérieure et d'un dressage.
L'idée de Reich, à rebours de toute soumission ou oppression, vise la communauté des Stämme (des tribus, des régions). Centre de l'Europe, enjeu de l'histoire européenne, le Reich offre, dit Krieck, une forme politique acceptable pour tous les Européens et pour tous les peuples extra-européens. Dans cette perspective, le monde doit être organisé et structuré d'après les communautés qui le composent, afin d'aboutir à la communauté des peuples. Tous, sur la Terre, doivent bénéficier d'espace et de droit: tel est la réponse de l'Allemagne au «moloch» qu'est l'impérialisme britannique. La mission universelle du Reich est d'assurer un droit à toutes les particularités ethniques/nationales nées de la vie et de l'histoire.
Enfin, il convient de former une élite disciplinée, qui dresse les caractères par la Zucht et la Selbstzucht (maîtrise de soi). La poésie et l'art ont un rôle particulier à jouer dans ce processus de dressage permanent, de lutte contre l'Utgard, l'Unheil.
Education nationale-politique (Nationalpolitische Erziehung), 1941
Ouvrage qui définit tout un ensemble de concepts pédagogiques et qui reprend les théories de Krieck pour les replacer dans le cadre du nouvel Etat national-socialiste. Les définitions proposées par l'auteur sont soumises à une déclaration de principe préalable: l'ère de la raison pure est désormais révolue, de même que celle de la science dépourvue de préjugés et de la neutralité axiologique (Wertfreiheit). La règle du subjectivisme absolu triomphe car la science prend conscience que des préjugés de tous ordres précèdent son action. L'acceptation de ces préjugés imbrique la science dans le réel. Son rôle n'est pas de produire quelques chose d'essentiel car le monde n'est jamais le produit des idées. La science doit au contraire se poser comme la conscience du devenir et, ainsi, pouvoir pré-voir, pressentir ses évolutions ultérieures, puis planifier en conséquence et se muer de la sorte en «technique», en force méthodique de façonnage, de mise en forme du réel. Grâce à la science/technique ainsi conçue, la pulsion (Trieb) devient acte (Tat), le grouillement de la croissance vitale (Wachsen) se transforme en volonté, l'événémentiel est dompté et permet un agir cohérent. Krieck annonce la fin de la science désincarnée; le sujet connaissant fait partie de ce monde sensoriel, historique, ethnique, racial, temporel. Il exprime de ce fait un ensemble de circonstances particulières, localisées et mouvantes. Reconnaître ces circonstances et les maîtriser sans vouloir les biffer, les figer ou les oblitérer: telle est la tâche d'une science réelle, incarnée, racisée. L'homme est à la fois sujet connaissant et objet de connaissance: il est certes le réceptacle de forces universelles, communes à toutes les variantes de l'espèce homo sapiens, mais aussi de forces particulières, raciales, ethniques, temporelles/circonstancielles qui font différence. Une différence que la science ne peut mettre entre parenthèses car ses multiples aspects modifient l'impact des forces universelles. Il y a donc autant de sciences qu'il y a de perspectives nationales (science française, allemande, anglaise, chinoise, juive, etc.). Krieck insiste sur un adage de Fichte: Was fruchtbar ist, allein ist wahr (Ce qui est fécond seul est vrai). Mais Krieck demeure conscient du danger de pan-subjectivisme que peuvent induire ses affirmations. Il pose la question: la science ne risque-t-elle pas, en perdant son autonomie et sa liberté par rapport au «désordre» des circonstances particulières, de n'être plus qu'une servante, une «prostituée» (Dirne) au service d'intérêts ou de stratégies partisanes? La réponse de Krieck tombe aussitôt, assez lapidaire: cela dépend du caractère de ceux qui instrumentalisent la science. Celle-ci a toujours été déterminée et instrumentalisée par le pouvoir. Le pouvoir indécis du libéralisme, démontre Krieck, a affaibli et la science et le peuple. Un pouvoir mené par des personnalités au caractère fort enrichit la science et le peuple.
Parmi les définitions proposées par Krieck, il y a celle de «révolution allemande», en d'autres termes, la révolution nationale-socialiste. La «révolution allemande» devra créer la «forteresse Allemagne», soit forger un Etat capable de façonner et de dresser (zuchten) les énergies du Volk, d'organiser l'espace vital de ce peuple. L'Etat doit éduquer les Allemands sur bases de leurs caractéristiques raciales et organiser la santé collective et la sécurité sociale. Cette révolution est organique et dépasse les insuffisances délétères des mécanicismes libéral et marxiste.
Krieck nous présente une définition du terme «race». La race consiste en l'ensemble transmissible par hérédité des caractéristiques déterminées des corps et des prédispositions spirituelles. Ces caractéristiques corporelles et ces prédispositions spirituelles dépassent l'individu; elles se situent au-delà de lui, dans sa famille, son clan, sa tribu, son peuple, sa race. La Zucht, le dressage, vise la rentabilisation maximale de cet héritage. L'absence de dressage conduit au mixage indifférencié et à la dégénérescence des instincts et des formes. La politique raciale, qui doit logiquement découler de cette définition, n'a pas que des facettes biologiques: elle a surtout une dimension psychique et spirituelle, greffée par l'éducation et le dressage. L'homme est néanmoins un tout indissociable qui doit être étudié sous tous ses aspects. Les interventions éducatives de l'Etat doivent progresser simultanément dans les domaines corporel, psychique et spirituel. En Allemagne, l'idéaltype racial qui doit prévaloir est le modèle nordique. La race nordique doit demeurer le pilier, l'assise de tout Etat allemand viable. La saignée de 1914-1918 a affaibli le corps de la nation allemande-nordique. Les idéologies universalistes étrangères ont eu le dessus pendant la période de Weimar, avant que le substrat racial-psychique-spirituel ne revienne à la surface par l'action des Nationaux-Socialistes. Ce mouvement politique, selon Krieck, constate la faillite du libéralisme diviseur et rassemble toutes les composantes régionales, confessionnelles, sociales du peuple allemand dans une action révolutionnaire instinctuelle et non intellectuelle.
Les diverses phases de l'éducation se déroulent dans la famille, les ligues de jeunesse et la formation professionnelle. L'ère bourgeoise a été l'ère de l'économie, affirme Krieck, et l'ère nationale (völkische) sera l'ère des métiers, de la créativité personnelle et de l'éducation professionnelle.
L'Etat doit être une instance portée par une strate sélectionnée, politisée et organisée en milice de défense, homogène et cohérente, recrutée dans tout le peuple et répartie à travers lui. C'est elle qui formera la volonté politique de la collectivité. Au XIXième siècle, cette «strate sélectionnée» était l'élite intellectuelle bourgeoise (bürgerliche Bildungselite), universitaire et savante. Mais cette bourgeoisie, en dépit de la qualité remarquable de ses productions intellectuelles, n'avait pas d'organisation qui traversait tout le corps social. Sa capillarisation dans le corps social était insuffisante: ce qui la condamnait à disparaître et à ne jamais revenir.
Krieck définit aussi ce qu'est la Weltanschauung, mot-clef des démarches organicistes de la première moitié du siècle. La Weltanschauung, pour Krieck, est la façon de voir le monde propre à un peuple et au mieux incarnée dans la strate sélectionnée. L'homme primitif élaborait une Weltbild, une image du monde magique-mythique. L'homme de la civilisation rationaliste est désorienté, sans image-guide, ne perçoit plus aucun sens. Sa pensée est dissociée de la vie. L'homme qui a dépassé la phase rationaliste/bourgeoise maîtrise et la vie et la technique, a le sens de la totalité/holicité (Ganzheit) de la vie, allie le magique et le rationnel, le naturel et l'historique. Trois types d'hommes se côtoient: ceux qui sont animés par la foi et ses certitudes, ceux qui imaginent tout résoudre par la raison et ses schémas et, enfin, ceux qui veulent plonger entièrement dans le réel et acceptent joyeusement les aléas du destin et du tragique qu'il suscite. Ces derniers sont les héros, porteurs de la révolution que Krieck appelle de ses vœux.
Dans la dernière partie de son ouvrage, l'auteur récapitule ses théories sur l'éducation et les replace dans le contexte national-socialiste.
(Robert Steuckers).
- Bibliographie: pour un recencement complet des écrits de Krieck, cf. Armin Mohler, Die Konservative Revolution in Deutschland 1918-1932, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt, 1989 (3ième éd.). Nous recensons ci-dessous les principaux livres de l'auteur: Persönlichkeit und Kultur. Kritische Grundlegung der Kulturphilosophie, Heidelberg, 1910; Lessing und die Erziehung des Menschengeschlechtes, Heidelberg, 1913; Philosophie der Erziehung, Iéna, 1922; Menschenformung. Grundzüge der vergleichenden Erziehungswissenschaft, Leipzig, 1925; Bildungssysteme der Kulturvölker, Leipzig, 1927; Deutsche Kulturpolitik?, Francfort s.M., 1928 (2ième éd., Leipzig, 1936); Staat und Kultur, Francfort s.M., 1929; Nationalpolitische Erziehung, Leipzig, 1932; Völkisch-politische Anthropologie (3 vol., 1936, 1937, 1938; vol. I, Die Wirklichkeit; vol. II, Das Handeln und die Ordnungen; vol. III, Das Erkennen und die Wissenschaft); Leben als Prinzip der Weltanschauung und Problem der Wissenschaft, Leipzig, 1938; Mythologie des bürgerlichen Zeitalters, Leipzig, 1939; Volkscharakter und Sendungsbewußtsein. Politische Ethik des Reichs, Leipzig, 1940; Der Mensch in der Geschichte. Geschichtsdeutung aus Zeit und Schicksal, Leipzig, 1940; Natur und Wissenschaft, Leipzig, 1942; Heil und Kraft. Ein Buch germanischer Weltweisheit, Leipzig, 1943.
- Sur Krieck: W. Kunz, Ernst Krieck. Leben und Werk, 1942; Georg Lukacs, Die Zerstörung der Vernunft, 1962 (l'éd. originale hongroise est parue en 1954); E. Thomale, Bibliographie v. Ernst Krieck. Schriftum, Sekundärliteratur, Kurzbiographie, 1970; K. Ch. Lingelbach, Erziehung und Erziehungstheorien in national-sozialistischen Deutschland, 1970; Gerhard Müller, Ernst Krieck und die nationalsozialistische Wissenschaftsreform, 1978; Jürgen Schriewer, «Ernst Krieck», in Neue Deutsche Biographie, 13. Band, Duncker & Humblot, 1982; Giorgio Penzo, Il superamento di Zarathustra. Nietzsche e il nazionalsocialismo, 1987, pp. 312-318; Léon Poliakov & Josef Wulf, Das Dritte Reich und seine Denker, 1989 (2ième éd.).
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dimanche, 18 octobre 2009
Otto Koellreutter (1883-1972)
KOELLREUTTER, Otto 1883-1972
Ce professeur de droit public nait à Fribourg en Brisgau le 26 novembre 1883. Etudiant en droit, il rédige une thèse sur la figure du juge anglais puis poursuit ses investigations après la première guerre mondiale, où il est appelé sous les drapeaux, en se spécialisant dans le droit administratif anglais. Enseignant à Halle et à Iéna, il formule un antiparlementarisme couplé à la recherche d'une forme d'«Etat populaire» (Volksstaat) reposant sur des principes radicalement autres que ceux du positivisme juridique. Il reçoit à cette époque l'influence des idées d'Oswald Spengler. De 1927 à 1944, il est le co-éditeur de la célèbre revue Archiv des öffentlichen Rechts. Militant national-socialiste depuis les élections du 14 septembre 1930, il espère que le nouveau régime transposera dans le réel ses théories de l'«Etat populaire». D'essence bourgeoise et d'inspiration anglo-saxonne, les idées de Koellreutter peuvent être qualifiées de conservatrices. En fait, elles relèvent d'un conservatisme particulier qui croit percevoir une alternative viable au libéralisme dans le mouvement hitlérien. De 1933 à 1942, Koellreutter édite la revue Verwaltungsarchiv (= Archives d'administration). Au fil du temps, ses espoirs sont déçus: le régime déconstruit l'Etat de droit sans rien construire de solide à la place. Il visite le Japon, en étudie le droit, et se transforme, à partir de 1938/39 en adversaire du régime dont il s'était fait le propagandiste zélé entre 1930 et 1936, en écrivant à son intention une longue série de brochures didactiques et précises. Ces nombreux écrits recèlent tous de pertinentes polémiques à l'encontre des thèses de Carl Schmitt, notamment de celle qui fait de la distinction ami/ennemi le fondement du politique. En 1942, la rupture est consommée: dans un article de la revue Verwaltungsarchiv, il compare le droit et la figure du juge tels qu'ils sont perçus en Allemagne et en Angleterre, démontrant que ce dernier pays respecte davantage les principes du vieux droit germanique. Koellreutter quitte l'université en 1952, rédige pendant sa longue retraite trois sommes sur le droit constitutionnel et administratif. Il meurt le 23 février 1972 dans sa ville natale.
Peuple et Etat dans la vision-du-monde du national-socialisme (Volk und Staat in der Weltanschauung des Nationalsozialismus), 1935
Brochure didactique destinée à dévoiler aux juristes allemands les nouveaux principes qui allaient dorénavant gouverner l'Allemagne. Elle est intéressante car elle résume toute la polémique entre l'auteur et Carl Schmitt. Koellreutter commence par expliquer en quoi sa position n'est nullement «objective», au sens conventionnel du terme. L'objectivité, telle que la conçoivent les libéraux, est a-politique; elle ne recèle aucune énergie politique. Les concepts politiques doivent être en rapport avec le réel et avec une substance politique concrète, en l'occurrence le peuple. L'idée d'Etat chez Carl Schmitt est purement constructive; les ressortissants de l'Etat ont le devoir moral de le construire mais Carl Schmitt ne précise pas quelle doit être l'essence de cet Etat que postule l'éthique. La distinction fondamentale opérée par Carl Schmitt entre l'ami et l'ennemi conduit à percevoir le travail politique comme un conflit perpétuel, où l'homme se transforme en «carnassier». Schmitt inverserait ainsi Rousseau, en transformant son idyllisme pastoraliste en idyllisme du carnassier. En ce sens, seule la guerre est politique, ce que conteste Koellreutter qui, comme Clausewitz, ne voit en elle qu'un moyen. Chez Schmitt, cette apologie implicite de la guerre participe du propre même des idéologies niant la primauté du Volk. Elle exprime bien l'essence du Machtstaat libéral ou de l'impérialisme. La pensée völkische du national-socialisme, elle, part du principe de la communauté, de la définition de l'ami, du camarade. Elle insiste sur ce qui unit les hommes et non sur ce qui les sépare. Dans une telle optique, la guerre n'a rien d'essentiel et la paix entre les nations est une valeur cardinale.
Dans Staat, Bewegung und Volk, le petit livre où Carl Schmitt tente de parfaire son aggiornamento national-socialiste, l'Etat est l'instance statique et conservante, porté par le fonctionnariat et l'armée; le mouvement est l'instance dynamique, qui recueille, trie et affecte les énergies émanant du peuple; quant à ce dernier, s'il n'adhère pas au mouvement, il n'est qu'une masse inerte a-politique. Pour Koellreutter, cette définition du peuple comme masse inerte a-politique relève d'une «doctrine du pouvoir étrangère aux lois du sang», dérivée de Hegel et de la pensée politique latine sans ancrage ethnique précis. Elle est fasciste, dans le sens où Guido Bartolotto, dans Die Revolution der jungen Völker , a défini l'idéologie italienne née sous l'impulsion de Mussolini: le national-socialisme repose sur la substance ethnique; le fascisme sur la culture, la tradition et l'éthique, toutes instances sans incarnation —au sens littéral du mot— précise. Toute pensée germanique, à la différence des pensées politiques romanes, s'ancre dans une substance populaire, ce qui interdit de penser le peuple comme une masse amorphe a-politique. Ce sont au contraire l'Etat et le mouvement qui puisent leurs énergies dans le peuple. Pour Koellreutter, l'Etat n'a pas de valeur en soi; il n'est qu'un moyen parmi d'autres moyens pour faire rayonner les énergies émanant du peuple. Cette idée de rayonnement génère la paix dans le monde, car le régime qui œuvre au rayonnement du peuple dont il est l'émanation politique respecte ipso facto les institutions qui permettent le rayonnement d'un peuple voisin.
Le droit constitutionnel allemand. Une vue d'ensemble (Deutsches Verfassungsrecht. Ein Grundriß), 1936
Ouvrage abordant l'ensemble des questions fondamentales de la politologie, Deutsches Verfassungsrecht commence par définir le politique comme l'expression d'une attitude spirituelle et d'un type humain particulier. Cette attitude et ce type humain varient selon les époques: c'est le bourgeois à l'heure où le libéralisme entre en scène; c'est le soldat politique après que les valeurs du libéralisme se soient écroulées dans les tranchées du front. D'emblée, Koellreutter formule sa critique majeure à l'endroit des thèses de Carl Schmitt. Celui-ci a déduit sa notion du politique à partir de la distinction ami-ennemi. La faiblesse de cette définition réside en ceci: l'ami n'est plus que le non-ennemi. D'où, estime Koellreutter, Schmitt évacue la dimension communautaire et pose un type d'homme politique purement formel qui risque, ambiance darwinienne aidant, par se transformer en «carnassier politique». C'est ce qui explique pourquoi Carl Schmitt affirme que seule la guerre relève du politique à l'état pur. Koellreutter refuse cette affirmation schmittienne car elle implique que l'essence de la politique extérieure ne réside que dans le conflit entre les peuples. Pour Carl Schmitt, seule la politique extérieure est essentiellement politique. Il y a chez Schmitt, constate et conteste Koellreutter, un primat de la politique extérieure.
A rebours de Schmitt, la conception völkische, ethniste et populiste, voit l'essence du politique dans l'orientation communautaire. Cette conception désigne plutôt l'ami, le Volksgenosse, le camarade. Elle est issue de la camaraderie des tranchées. Elle est l'expression typique du soldat politique qui participe et se donne à une communauté. Pour les nationaux-socialistes, il n'y a pas de primat de la politique extérieure; il n'y a en fait aucun primat qui soit. A l'intérieur, le national-socialisme veut forger la «communauté populaire» (la Volksgemeinschaft), c'est-à-dire une communauté de soldats politiques, qui englobe toute la réalité politique. A l'extérieur, Koellreutter veut qu'il y ait reconnaissance mutuelle entre les peuples et non conflit ou inimitié. L'accent n'est donc pas mis sur l'ennemi mais sur la solidarité. Le national-socialisme, du moins de la façon dont le conçoit Koellreutter, doit reconnaître la valeur des ethnicités étrangères. La guerre n'est pas un idéal social mais un moyen extrême pour conserver la plus haute valeur d'une communauté populaire: son honneur.
Avant l'avènement du national-socialisme, deux courants d'idées dominaient en Occident et dans le monde: le libéralisme anglais et la démocratie formelle française. Ces deux courants étaient déterminants pour l'ensemble des systèmes politiques. En Allemagne, pourtant, l'un et l'autre étaient incompatibles avec les racines du droit allemand. Koellreutter procède à une définition du libéralisme politique. Il correspond à la nature du peuple anglais et à la géographie insulaire. L'insularité met à l'abri d'attaques venues de l'étranger, ce qui donne un sentiment de liberté. Mais le libéralisme radical, comme par exemple celui que veut promouvoir un Hans Kelsen, dès qu'il est exporté en Allemagne, provoque la dissolution et la dégénérescence car il ne peut s'appliquer à un peuple qui est perpétuellement sur la défensive, le long de frontières ouvertes, menacées par plusieurs puissances ennemies. L'Allemagne a besoin de cohésion et de solidarité, vertus diamétralement opposées à la liberté au sens anglo-saxon.
La définition que nous donne Koellreutter de la démocratie formelle repose sur l'idée du contrat social de Rousseau, où l'on repère une exigence d'égalité formelle, laquelle doit, pour pouvoir s'appliquer, limiter la liberté personnelle. Les individus soumis à la démocratie formelle sont pensés dans l'abstrait et sont par principe porteurs de droits politiques égaux. Dans un tel contexte, c'est la majorité arithmétique qui règne, domine et, en certaines circonstances, écrase ses adversaires. Cette majorité arithmétique veut absolument faire l'identité entre dominants et dominés, les homogénéiser. C'est cette majorité circonstancielle qui détermine le contenu de la liberté et de l'égalité. De cet état de choses découle un relativisme que Koellreutter juge pernicieux car à chaque élection, ce contenu est susceptible de changer. Il n'y a plus de valeurs politiques absolues et permanentes, ancrées dans les tréfonds de l'âme populaire. Les seules valeurs qui subsistent sont celles, aléatoires, que crée l'individu au gré des circonstances. Ce qui interdit toute symbiose entre les individus et l'Etat, lequel déchoit en simple appareil, en «veilleur de nuit». Dans une démocratie formelle, les portes sont ouvertes au libéralisme, surtout dans le domaine de l'économie.
Le marxisme est fruit du libéralisme car sa position de base ne retient aucune forme d'ethnicité. Quant à l'Etat-appareil de la démocratie formelle, il se mue, après une révolution de type marxiste, en un Etat de classe. En effet, la seule réalité politique pour le marxisme, c'est la lutte des classes. Peuple et Etat ne relèvent que de la superstructure idéologique, ne sont finalement que du «vent». Pour les marxistes comme pour Carl Schmitt, c'est l'antagonisme qui prime. Les thèses des uns comme de l'autre ne retiennent aucun volet constructif impliquant qu'il faille forger la Volksgemeinschaft. Cette lacune explique pourquoi la démocratie libérale ne peut dépasser le marxisme. L'ère de Weimar a prouvé que la seule possibilité pour sauver le libéralisme et la démocratie formelle, c'est de s'allier aux marxistes. Mais ce compromis est fragile: le marxisme étant conséquent à l'extrême, comme l'a démontré le bolchévisme russe, il élimine en bout de course la démocratie bourgeoise. Ou bien, autre possibilité, il veut raviver les liens qui unissent l'individu à son peuple et à l'Etat comme en Italie et se mue alors en fascisme ou, dans le cas allemand, en national-socialisme.
Au vu de ces évolutions, Koellreutter conclut que seule la révolution nationale-socialiste est une vraie révolution car elle transforme de fond en comble les assises de l'Etat et crée le Führerstaat. Le peuple n'est plus alors une somme arithmétique de citoyens mais une unité vivante. La notion de race, l'accent mis sur le sol et la patrie charnelle, l'insistance sur le principe de totalité (Ganzheit) assurent la continuité du processus politique, reflet de la vie du peuple à travers les siècles. L'Etat n'a pas de valeur en soi. Il sert à donner forme, mais reste extérieur à la substance. Si la substance finit par se retrouver à l'étroit dans la forme étatique qui l'enserre, elle s'en débarrasse par une révolution et en crée une nouvelle. Pour Otto Koellreutter, l'idée d'Etat, comme «réalité de l'idée éthique» (Hegel), est un instrument précieux mais il faut se garder de l'idolâtrer.
Le droit que préconise Koellreutter est d'inspiration «communautaire». Ce droit, expression des idées innées du peuple, doit refléter ce qui apparaît juste pour la protection, la promotion et le développement du peuple. Le droit et l'Etat doivent être des fonctions multiplicatrices des forces vitales du peuple. Un tel Etat est de droit puisqu'il évacue les barrières qui s'opposent à ou freinent l'épanouissement des potentialités du peuple. Le droit qu'il défend et ancre dans la réalité est davantage légitimité que légalité, contrairement au libéralisme.
L'objet de toute constitution est de faire l'unité du peuple. La conception libérale de la constitution veut que l'Etat libéral soit un Etat constitutionnel capable de réaliser les idées de liberté et d'égalité. Elle laisse une large place aux droits fondamentaux de l'individu dans la pensée constitutionnaliste. Ensuite, le libéralisme veut écrire le droit donc le figer. Un droit écrit est très difficile à modifier car le juriste doit alors inventer des techniques juridiques excessivement complexes qui ralentissent les processus de transformation nécessaires de la société. A ce droit constitutionnel individualiste/libertaire et égalitaire, techniquement complexe, doit se substituer une pensée constitutionnaliste nationale-socialiste, écrit Koellreutter, inspirée du modèle anglais qui se passe de constitution, car, à l'époque de Cromwell (celle du Führerstaat anglais dans sa forme la plus pure), l'Angleterre ne connaissait pas les exagérations de l'individualisme. La constitution anglaise est en fait implicite et non écrite. Elle croît organiquement. Ont valeur de constitution des lois comme le Bill of Rights de 1689 qui assure les libertés individuelles ou le Parliament Act de 1911 qui diminue considérablement le rôle de la Chambre des Lords dans l'élaboration des lois. Ce mode de fonctionnement organique est d'essence germanique, conclut Koellreutter. Aussi, en Allemagne, il importe d'introduire une constitution vivante qui puisse répondre immédiatement aux impératifs de l'heure. Le national-socialisme a déjà procédé de la sorte, constate Koellreutter, en citant la loi de prise du pouvoir du 24 mars 1933 —la fameuse Ermächtigungsgesetz— la loi du plébiscite du 14 juillet 1933, la loi sur l'unité du parti et de l'Etat du 1er décembre 1933, les lois raciales de Nuremberg sur la «protection du sang et de l'honneur allemands» (15 septembre 1935). De telles lois peuvent être modifiées sans grandes complications d'ordre technique. L'objet ne doit donc pas être de construire un système écrit de normes mais de façonner politiquement et juridiquement le corps du peuple par une direction (Führung) liée à ce même peuple.
La science juridique libérale est positiviste, ce qui la fait basculer dans la technicité et la dogmatique juridiques. Le droit étatique déchoit en annexe du droit privé et lui est subordonné (cf. Paul Laband et Otto Mayer). Otto von Gierke a été pionnier, estime Koellreutter, en explorant le droit communautaire et le Genossenschaftsrecht allemands (le droit des compagnonnages). De cette exploration, il est permis de conclure que la veine communautaire constitue l'essentiel du droit allemand. Il s'avère donc nécessaire de hisser ces principes communautaires aux niveaux du peuple, de l'Etat et du droit. Ce sens inné du droit a rendu impopulaire la démocratie formelle et le positivisme juridique de Weimar, d'autant plus que la «camaraderie des tranchées» avait évacué les réflexes individualistes bourgeois. Koellreutter constate dès lors un rejet du constructivisme juridique pur, de la théorie pure du droit et de l'Etat (Hans Kelsen). Droit et Etat ne sont plus que des constructions abstraites. D'où le but des nouvelles sciences juridiques est désormais de forger un droit porté par les chefs naturels qui se sont imposés par leurs qualités personnelles dans les tranchées.
Le modèle du futur droit allemand est anglais. Car le droit anglais rejette les dogmes et les spéculations tout en allant droit au vécu. Il suscite une pensée juridique qui fusionne droit et politique. Le contenu, la substance politique, prime la forme juridique. Aux formes figées du droit, il faut donner un sens politique, sans pour autant les abolir. Il suffit de reprendre ce qui est utile. S'il y avait harmonie totale au sein de la communauté populaire, il n'y aurait pas besoin de droit ni d'Etat. Mais, tonne Koellreutter, il y a les indisciplinés et les «tire-au-flanc» (Drückeberger). Donc croire à une harmonie totale relève d'une pensée anti-politique (impolitique). L'esprit communautaire naît par l'action de fortes personnalités.
En présentant à ses lecteurs la pensée juridique völkische, Koellreutter formule une seconde critique à l'encontre de Carl Schmitt. Notamment contre sa distinction entre les Ordnungsdenken (les pensées de l'ordre) normatif, décisionniste et concret. La pensée juridique völkische refuse les distinctions trop discriminantes et, par conséquent, trop abstraites. Elle entend s'orienter par rapport à la réalité politique. Elle refuse la spéculation pour privilégier la mise en forme. La concrétude se manifeste toujours par le sens particulier, typé, de la concrétude que génère un peuple donné. Norme et décision jouent un rôle important car la norme met le sens de la concrétude en forme et la décision tranche dans le sens de l'épanouissement de la communauté populaire.
Koellreutter aborde également les fondements historiques du droit constitutionnel allemand depuis l'époque médiévale jusqu'au XIXième siècle, en abordant successivement l'essence du Reich, des pouvoirs territoriaux allemands (Prusse et Autriche), de la Confédération Germanique, le défi de l'unification économique graduelle, l'évolution du droit constitutionnel prussien (l'impact de la pensée du Baron von Stein), l'évolution du droit constitutionnel des Etats de l'Allemagne méridionale, la signification de l'Assemblée nationale de Francfort en 1848 (première représentation d'un mouvement populaire, issu des corporations étudiantes —les célèbres Burschenschaften— et des combattants de la guerre de libération de 1813). Cette histoire révèle une opposition constante entre la légitimité et la légalité. Opposition patente dans le cas du Parlement de Francfort qui sous-estimait le poids des constitutions prussienne et autrichienne, impossibles à évacuer sans combat donc sans guerre civile. Les juristes allemands ont tenté de combler le hiatus entre la légalité et la légitimité dans la nouvelle constitution du Reich de 1849 en introduisant un système bicaméral et en pensant juridiquement la Confédération nord-allemande (Norddeutscher Bund). Le Reich de Bismarck, porté par l'armée populaire victorieuse en 1871, était un Etat fédéral (Bundesstaat), où les Etats allemands gardaient leur souveraineté et le Bundesrat (le Conseil fédéral) regroupait les souverains de ces Etats membres de la confédération. Le Bundesrat était présidé par le roi de Prusse qui acquérait ainsi la dignité d'Empereur. Koellreutter explique que ce fédéralisme était perçu comme provisoire, ce que prouve également la querelle entre l'école du Bavarois von Seydel, pour qui les Etats du Reich demeurent pleinement souverains, et l'école de Laband, pour qui ces Etats ont transféré définitivement leur souveraineté à l'instance englobante qu'est le Reich. Koellreutter estime que le Bundesstaat bismarckien ne tenait que grâce à la personnalité charismatique du Chancelier de Fer. Ce dernier, pourtant, par manque de temps, n'a pas réussi à éduquer une caste de dirigeants nouveaux; son départ a provoqué le cafouillage du wilhelminisme, puis les querelles de prestige sur la scène internationale qui ont abouti aux carnages de 1914.
Koellreutter procède ensuite à une analyse de la constitution de Weimar. La République d'après 1918 est également un faux Etat fédéral. Son principal défaut est de n'avoir qu'une seule Volkskammer (Chambre du Peuple) et de refuser toute forme de Sénat comme contraire au principe d'égalité. Ensuite le système de Weimar laisse la bride sur le cou des partis. L'Etat partitocratique ne fonctionne que s'il y a unité de vue entre tous les partis sur les choses essentielles du politique. En Allemagne, cette unanimité était inexistante. Les partis se sont affrontés sans vouloir faire le moindre compromis parce qu'ils représentaient des Weltanschauungen trop différentes, sur les plans de l'économie, de la religion et de la culture. Les querelles ont provoqué la multiplication des partis donc l'ingouvernabilité du pays. Le système de Weimar est un liberaler Machtstaat qui ne défend que les intérêts d'une bourgeoisie numériquement infime, donc dépourvue d'assises tangibles dans la population. En fait, cette république et une dictature camouflée, explique Koellreutter, avec son Président comme «gardien de la Constitution». Elle maintient telle quelle une Constitution qui ne répond plus aux besoins de survie de la nation.
Koellreutter définit ensuite les notions de peuple (Volk) et de nation. La notion de Volk que propose Koellreutter s'oppose diamétralement à celle que suggère Carl Schmitt. Pour Koellreutter, le Volk n'est pas la masse non politisée de la nation: une telle définition serait le propre du libéralisme musclé ou du fascisme. Le Volk, bien au contraire, est source du droit et du pouvoir. Koellreutter insiste alors sur la spécificité raciale/biologique et entend dépasser la définition spenglérienne du Volk comme communauté d'histoire et de destin. Il reconnaît cependant que le peuple allemand est le résultat d'un mixage complexe qui doit être préservé comme telle en tant qu'Artgleicheit (égalité/homogénéité de l'espèce, de la race). Cette volonté de préservation s'exprime dans les lois de protection de la race et des terroirs.
Quant au concept de nation, c'est un concept français révolutionnaire ou italo-fasciste. Pour les idéologies françaises et italiennes, la nation est le produit d'un pouvoir; elle est créée par l'Etat. Koellreutter rejette ces définitions: pour lui, et pour la conception völkische qu'il entend défendre et illustrer, Volk et nation ne sont pas des notions essentiellement différentes. La nation est pour lui la volonté d'une communauté populaire de se positionner sur la scène internationale.
L'auteur aborde ensuite les fondements de la Führung. Le caractère populaire (völkisch) de la Führung permet de distinguer la «totalité de l'idée völkische» de l'«Etat total» d'inspiration mussolinienne ou latine. La différence est nette pour Koellreutter; il s'agit de deux totalités très différentes. L'idée völkische est une totalité naturelle; l'idée d'Etat total exprime la revendication de l'appareil du pouvoir dans son ensemble pour conserver sa position non völkische. L'autorité, pour Koellreutter et la tradition völkische, doit s'enraciner dans une éthique communautaire qui unit le peuple et la Führung et s'exprime dans une forme politique, un Etat. Les vrais chefs fusionnent en eux, dans leur personnalité, le Volksgeist et le Volkswille (la volonté populaire). Derrière de tels figures charismatiques, il convient de rassembler une Gefolgschaft (une suite), unissant de plus en plus de citoyens. L'histoire a révélé plusieurs types de chefs politiques. La Führung de l'Etat princier absolu (absoluter Fürstenstaat) est l'aristocratie. L'Etat libéral-démocratique porte au pouvoir les politiciens bourgeois. En Angleterre, l'aristocratie est une aristocratie «ouverte», incorporant des bourgeois méritants pour former la caste dirigeante baptisée society. L'Etat national-socialiste trouve ses racines dans l'esprit des combattants de la Grande Guerre et des militants politiques de la «longue marche» de la NSDAP vers le pouvoir.
La Führung politique nationale-socialiste se donne trois instruments de gouvernement: 1) le Parti (ou le Mouvement), instrument politique direct de la Führung; 2) le fonctionnariat professionnel, recruté dans toutes les strates du peuple est l'instrument traditionnel au service de toute Führung; 3) l'armée, la Wehrmacht, instrument militaire. Ces trois instruments s'enracinent dans l'ensemble du peuple. Les citoyens qui les servent doivent être éduqués dans l'esprit de l'Etat nouveau. Le parti dirige toutes les forces du peuple contre l'ancien appareil. Dès qu'il arrive au pouvoir, sa mission change. Il commande alors l'Etat et éduque le peuple. Koellreutter refuse la séparation des pouvoirs, car le législatif et l'exécutif sont deux modalités de la Führung qui doit rester unitaire. Pour assurer une représentation et donner forme à la pluralité du peuple, la Führung organise corporativement la nation.
L'ouvrage se termine par une théorie de l'organisation économique, religieuse et culturelle du nouvel Etat, accompagnée de projets d'organisation corporative. A la liberté d'opinion libérale doit succéder une régulation de la vie culturelle. Le nouvel Etat doit garantir la liberté de la recherche scientifique.
(Robert Steuckers).
- Bibliographie: Richter und Master, 1908 (dissertation); Verwaltung und Verwaltungsrechtsprechung im modernen England, 1920; Die Staatslehre Oswald Spenglers, 1924; Die politischen Parteien im modernen Staate, 1926; Staat, Kirche und Schule im heutigen Deutschland, 1926; Der deutsche Staat als Bundesstaat und als Parteienstaat, 1927; Integrationslehre und Reichsreform, 1929; Der Sinn der Reichtagswahlen vom 14. Sept. 1930 und die Aufgabe der deutschen Staatslehre, 1930; Der nationale Rechtsstaat. Zum Wandel der deutschen Staatsidee, 1932; Volk und Staat in der Verfassungskrise, 1933; Grundriß der allgemeinen Staatslehre, 1933; Vom Sinn und Wesen der nationalen Revolution, 1933; Der deutsche Führerstaat, 1934; Volk und Staat in der Weltanschauung des Nationalsozialismus, 1935; Deutsches Verfassungsrecht. Ein Grundriß, 1935 (2ième éd., 1938); Grundfragen unserer Volks- und Staatsgestaltung, 1936; Deutsches Verfassungsrecht, 1936 (2ième éd., 1938); Der heutige Staatsaufbau Japans, 1941; «Recht und Richter in England und Deutschland», in Verwaltungsarchiv, 47, 1942; Deutsches Staatsrecht, 1953; Staatslehre im Umriß, 1955; Grundfragen des Verwaltungsrechts, 1955.
- Sur Otto Koellreutter: C.H. Ule, in Verwaltungsarchiv, 63, 1972; Jürgen Meinck, Weimarer Staatslehre und Nationalsozialismus. Eine Studie zum Problem der Kontinuität im staatsrechtlichen Denken in Deutschland 1928 bis 1936, Frankfurt a.M., Campus, 1978; Michael Stolleis, «Otto Keullreutter», in Neue Deutsche Biographie, 12. Band, Duncker und Humblot, 1980; Joseph W. Bendersky, Carl Schmitt. Theorist for the Reich, Princeton University Press, 1983.
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vendredi, 16 octobre 2009
50. Todestag Arnolt Bronnen
50. Todestag Arnolt Bronnen
Widersprüchlich, faszinierend, abstoßend: Arnolt Bronnen, der 64jährig am 12. Oktober 1959 in Ost-Berlin starb und seine Laufbahn als Kaufhausangestellter begann, war Anarchist, katholischer Konvertit, Nationalsozialist, Kommunist, ein Mitstreiter Brechts, Goebbels‘ Günstling beim Rundfunk, Widerstandskämpfer in Österreich, Nachkriegsbürgermeister.
So ist Bronnen mehr als nur die Personifizierung der Wirrnisse der Intellektuellen im 20. Jahrhundert. Seine jüdische Herkunft ließ er gerichtlich widerlegen. Den Haß auf den jüdischen Zieh- oder Zeugevater brachte er 1920/22 auf Papier und Bühne. Er war Renegat, Opportunist und Provokateur, der „faschistische Piccolo“ und die „Hyäne im Kinderzoo“. Er schockierte mit expressionistischen Theaterstücken und sexualneurotischen Exzessen, störte mit SA-Männern Thomas Manns Deutsche Ansprache in Berlin, ließ weiße Mäuse während der Kino-Premiere von Im Westen nichts Neues auf das Publikum los und fand in der DDR sein Gnadenbrot als Theaterkritiker.
Er veröffentlichte 1929 den wohl wichtigsten rechten Agitprop-Roman Deutschlands, O.S. (zuletzt Klagenfurt 1995), über die Kämpfe der Freikorps in Oberschlesien. Tucholsky schrieb einen berühmten Verriß. Und noch heute läßt sich über dieses Buch trefflich streiten. Und seine Kinder – Tochter Barbara ist Schriftstellerin, Franziska Schauspielerin (Schwarzwaldklinik), Sohn Andreas Unternehmer – sind sich bis heute uneins über ihren Vater, den Chaoten und Grenzgänger (B. Bronnen: Das Monokel, München 2000) .
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Réflexions sur l'oeuvre de Hans Grimm (1875-1959)
Hans-Georg MEIER-STEIN:
Réflexions sur l’oeuvre de Hans Grimm (1875-1959)
Le nom et l’oeuvre de Hans Grimm sont quasiment oubliés aujourd’hui. On ne se rappelle plus, à l’occasion, que du titre de son roman à succès, “Volk ohne Raum” (= “Peuple sans espace”), un titre que l’on mésinterprète presque toujours en répétant à satiété l’allusion perfide qu’il correspondrait mot pour mot à une formule propagandiste des nationaux-socialistes; on évoque dès lors son oeuvre sur le ton moralisateur, en prenant “ses distances”. Les rares tentatives de réhabiliter l’oeuvre littéraire de Hans Grimm, de lui témoigner une reconnaissance méritée, ont échoué car Grimm, représetnant d’une bourgeoisie allemande cultivée et conservatrice, demeure “persona non grata”.
Grimm, en effet, est issu du milieu de la grande bourgeoisie cultivée (la “Bildungsbürgertum”), où, rappelle-t-il dans ses souvenirs de jeunesse, “on écoutait de la bonne musique et lisait de bons livres, en cultivant les belles et nobles formes”. Le père de sa mère avait été "Juror" dans plusieurs expositions universelles; son grand-père paternel avait été inspecteur général des écoles de Hesse et homme de confiance du Prince électeur.
Le père de notre écrivain, né en 1821, avait étudié le droit jurisprudentiel, était d’abord devenu professeur à Bâle puis secrétaire général de la “Südbahngesellschaft” (= la société des chemins de fer du sud), un consortium franco-autrichien, ce qui lui avait permis de mener une existence princière dans les environs de Vienne. Il se consacrait très intensément à ses penchants littéraires et à sa galerie d’art, exposant les peintures qu’il collectionnait. Quand il a quitté la “Südbahngesellschaft”, il a pris la direction du “Nassauischer Kunstverein” (= “L’association artistique de Nassau”) à Wiesbaden, tout en déployant d’intenses activités politiques: il devint ainsi le fondateur de la “Burschenschaft” (= Corporation étudiante) Frankonia à Marbourg et du “Deutscher Kolonialverein” (= L’association coloniale allemande), avec le concours de Lüderitz et du jeune Carl Peters. Parmi ses amis, on comptait Andreas Heusler (l’Ancien), Julius Ficker, le philologue classique Karl Simrock et Karl von Etzel, le constructeur du chemin de fer du Brenner.
Hans Grimm nait le 22 mars 1875. Il étudie à Lausanne et à Berlin les sciences littéraires mais se retrouve assez rapidement à l’Institut Colonial de Hambourg et, de là, se rend en 1895 à Londres, pour parfaire une formation commerciale. En 1897, il s’installe en Afrique du Sud. A Port Elizabeth, il travaille d’abord, pendant quelques temps, comme employé auprès du comptoir d’une entreprise allemande, mais, bien vite, il devient négociant indépendant, ce qui lui permettra de vivre d’intéressantes aventures dans la Province du Cap et dans le Sud-Ouest africain allemand. En 1911, il revient en Allemagne, pour étudier les sciences politiques et mettre en chantier, pour un éditeur, son journal de voyage et ses “Nouvelles sud-africaines”.
Pendant la première guerre mondiale, il sert d’abord comme artilleur sur le front occidental, ensuite comme expert colonial auprès du département “étranger” du commandement suprême de l’armée de terre. Il y travaillera avec Waldemar Bonsels, Friedrich Gundolf, Arthur Moeller van den Bruck et Börries von Münchhausen. En 1918, Grimm s’achète une très belle propriété, située dans un ancien cloître bénédictin, dans la magnifique région de Lippoldsberg, dans la vallée de la Weser. C’est là qu’il résidera jusqu’à sa mort en 1959, interrompant ce séjour par de très nombreux voyages.
La critique littéraire a toujours précisé que les récits, que Grimm a écrits sur ses expériences africaines, constituaient le meilleur de toute son oeuvre. Et, de fait, ils le sont: leur qualité est incontestable, même s’ils sont oubliés aujourd’hui. Même Tucholsky trouva un jour quelques paroles louangeuses pour les vanter: sous le pseudonyme d’Ignaz Wrobel, en 1928 dans la revue “Weltbühne”, il écrit qu’ils nous procurent “une douce rêverie, celle que cet homme, si expérimenté et si grand voyageur, porte remarquablement sur son visage”.
Quelles qualités littéraires rendent-elles les récits de Grimm si originaux, si précieux, si agréables à lire? D’abord les descriptions si vivantes et si réalistes de peuples et d’environnements de types très différents: nous y rencontrons des fermiers et des colons blancs; des marchands, des négociants et leurs employés; des noirs travailleurs agricoles ou ouvriers sur les routes; des chasseurs, des policiers allemands et des soldats britanniques casernés dans des forts isolés; des Cafres, des Héréros et des Hottentots. Les affrontements entre Boers et Britanniques forment souvent l’arrière-plan de ces scénarios à strates multiples. Grimm se révèle virtuose dans l’art de camper des caractères humains, avec leurs désirs puissants ou secrets, leurs nostalgies et leurs aspirations, leurs humeurs et leurs ambitions, leurs ressentiments et leurs besoins.
Grimm décrit également, avec une réelle puissance d’expression, des paysages africains impressionnants ou pittoresques, avec leurs brousses sauvages où l’on se perd, leurs savanes, leurs steppes abandonnées de Dieu et leurs déserts silencieux, leur faune exotique qui pousse des milliers de cris et de rugissements. Le lecteur part ainsi en randonnées ou en expéditions d’explorateurs et est pris dans l’atmosphère unique du continent noir.
L’écriture de Grimm est épique, dense, elle puise dans des expériences vécues mais, malgré tout, elle recèle une mélancolie, une tristesse inexprimée parce que les destinées qu’il décrit finissent pas échouer, parce que les grands espoirs restent sans lendemain. Destinées et accomplissements des désirs ne se rejoignent pas. Grimm jette un regard tout empreint de sériosité sur les événements de ce monde africain et sait qu’il y a, derrière ce théâtre, une unité qui englobe tout ce qui existe. Tout cela nous est expliqué par un style léger, qui rappelle surtout celui des chroniqueurs. Les formes, par lesquelles Grimm s’exprime et écrit, sont simples mais dépourvues des rudesses et des épaisseurs des naturalistes et des modernistes; en cela, Grimm exprime un conservatisme pratique qui s’accroche aux réalités de la vie quotidienne, mélange d’un sens aigu et clair du réel et de fantastique.
La grande popularité des récits de Grimm s’explique aisément: ils paraissent à une époque qui était fascinée par les mondes exotiques, qui s’engouait pour les pays lointains, peu visités par les Européens, comme l’Inde, le Mexique ou les Iles d’extrême-Orient ou du Pacifique. Beaucoup de poètes et d’écrivains allemands carressaient le projet un peu fou de commencer une nouvelle vie idéale sous les tropiques. Emile Strauss partit quelques temps au Brésil. Max Dauthendey périt tragiquement à Java. Hermann Hesse n’a jamais cessé de s’enthousiasmer pour l’Inde. Et Bernhard Förster, le beau-frère de Nietzsche, installa une colonie “lebensreformisch” au Paraguay (ndt: le mouvement “lebensreformisch”, “réformateur de la vie”, mouvement à facettes multiples, entendait, en gros, renouer avec une existence naturelle, débarrassée de tout le ballast de la modernité urbaine et de l’industrialisme).
Dans ses romans également, Grimm prouve son talent exceptionnel d’observateur, par ses descriptions d’une grande exactitude et d’un réalisme parfait; cependant, la masse considérable de matériaux, que traite Grimm, le force, malgré lui, à échapper aux règles de l’art de la composition littéraire et aux formes requises. Son oeuvre romanesque s’inscrit trop dans une tradition littéraire spécifiquement allemande, celle du “Bildungsroman” ou de l’ “Entwicklungsroman” (= le roman qui narre une formation intellectuelle, spirituelle ou pratique, qui recense l’évolution d’une personnalité dans son environnement et face à lui). Les figures principales de ces romans sont donc conçues selon le leitmotiv d’une personnalité qui se construit et, par suite, fait appel au lecteur, pour qu’il acquière lui-même une même rigueur, une même volonté d’action, assorties d’un courage, d’un enthousiasme et d’une auto-discipline qui forment et consolident la personnalité.
“Der Ölsucher von Duala” est un roman de 1918, que Grimm écrit à la demande de Solf, Ministre des Colonies du Reich. Il y décrit les souffrances endurées par les civils allemands dans les colonies perdues. Le roman protocole littéralement les événements survenus dans ces colonies car Grimm a travaillé exclusivement sur des documents réels. Son intention était de tendre un miroir aux Alliés, qui accusaient les Allemands d’atrocités, et de leur montrer les effets de leur propre fanatisme. “Volk ohne Raum” de 1926 est un ouvrage qui se veut programme: il constitue une vision romantique d’avenir, celle d’une vie idéale dans les immensités de l’Afrique.
Grimm, dans un premier temps, a salué l’avènement du national-socialisme, en le considérant comme une grande insurrection révolutionnaire et comme un mouvement populaire impulsif, comparable à la Réforme protestante en Allemagne. Les potentialités destructives et la radicalité perverse du mouvement lui ont échappé au début. Pourtant, bien vite après la prise du pouvoir, il s’est trouvé lui-même confronté aux effets du système totalitaire. Les manipulations électorales et les nombreux dérapages l’ont choqué. Il n’a jamais cessé de se plaindre auprès des hautes instances du parti et du gouvernement, notamment auprès du Ministre de l’Intérieur Wilhelm Frick, contre les brutalités perpétrées contre les travailleurs socialistes et un dentiste d’origine israélite dans sa région. Ses origines bourgeoises lui conféraient un sens des normes et de la responsabilité éthique; il croyait pouvoir contrer les dérapages et les déviances du national-socialisme, justement parce qu’il avait salué son avènement. Il imaginait que, par sa grande notoriété, personne ne pouvait ignorer ses admonestations ni le battre froid.
Grimm s’est surtout engagé pour défendre un écrivain juif patriote, historien de l’art et érudit, Paul Landau, qui avait été son supérieur hiérarchique en tant que chef de section du département “presse” auprès du “service étranger” de l’OHL (Haut Commandement de l’Armée de Terre) pendant la première guerre mondiale. Indubitablement, Grimm a été mu par des sentiments de camaraderie: il a aidé un homme menacé dans son existence.
Un homme comme Grimm, qui prenait des initiatives morales aussi tranchées et sur le ton du défi, devait forcément s’attendre à éprouver des difficultés, surtout s’il proclamait de plus en plus haut et de plus en fort qu’il n’appartenait pas au parti. Cette attitude finit par provoquer une rupture avec Goebbels, Ministre de la Propagande, qui détenait désormais en ses mains toutes les arcanes de la vie culturelle allemande et considérait que ses directives devaient être suivies à la lettre, comme si elles étaient des décisions qui engageaient la patrie entière.
Grimm, sommé contre son gré d’avoir une entrevue avec Goebbels à Berlin, finit par reconnaître que l’intelligence du démagogue, entièrement fixée sur l’exercice du pouvoir, ne cultivait plus aucun respect pour les principes d’humanité: lui, Grimm, dans un tel contexte, n’avait plus la possibilité d’obtenir quoi que ce soit. La tentative méprisable de l’intimider n’eut aucun effet sur lui, elle ne l’a pas impressionné; impavide, il a même déclaré à son interlocuteur, médusé et perplexe, qu’il n’était pas prêt à faire les petits exercices de soumission et d’obéissance qu’on attendait de lui. La fierté bourgeoise de Grimm, le poids de sa personnalité, l’empêchaient de renoncer à son indépendance d’esprit et à sa liberté de jugement.
A partir de cette entrevue orageuse, Grimm devint l’objet d’une surveillance méfiante et les rencontres entre écrivains qu’il organisait chez lui à Lippoldsberg pour d’autres auteurs et pour ses admirateurs, furent observées par des agents soupçonneux. Ce fut pire encore, après le cinquantième anniversaire de Hitler; à cette occasion, avec d’autres figures de proue du monde des lettres, on lui demanda de rédiger une contribution hagiographique; il refusa, car une telle démarche, dit-il, relève de la “pure flagornerie”. Grimm était insensible à la corruption.
Cette indépendance d’esprit et ce refus d’obéissance au pouvoir en place, il les a conservés après la seconde guerre mondiale, à l’époque de la “rééducation” voulue par les Américains, une époque où l’on ne comptait plus les “retournements de veste”; Grimm se heurtait alors aux fonctionnaires mesquins de la “nouvelle culture”. Avec l’entêtement qui le caractérisait, en basculant parfois dans la “psycho-rigidité”, quand le nombre des ennemis croissait, Grimm a combattu l’amnésie et la conspiration du silence qui recouvraient les souffrances endurées par les Allemands; il a lutté aussi contre le fait “que des garnisons étrangères exercent désormais un pouvoir sur nos idéaux de vie, sur nos âmes mêmes, et qu’elles ont créé cette situation parce qu’elles sont un jour arrivées chez nous les armes à la main” (comme l’écrivit à cette époque-là un Friedrich Sieburg). Grimm a tenu à répondre aux accusations que le monde portait contre l’Allemagne et aux tirades haineuses d’un Thomas Mann (qui avait diffamé Carl Schmitt en le traitant “d’exploiteur de la défaite”). Pour contrer ces “légendes noires”, Grimm rédigea quantité de contre-pamphlets et plaidoyers en défense.
Au début des années cinquante, Grimm s’est engagé dans le SRP (= “Sozialistische Reichspartei”), une formation politique bientôt interdite, en tant que porte-paroles de l’aile national-conservatrice. Grimm avait toujours refusé l’hitlérisme et ses violences mais n’avait jamais renoncé à l’idéal d’une communauté populaire socialiste et nationale. Il meurt le 27 septembre 1959.
Hans-Georg MEIER-STEIN.
(article paru dans “Junge Freiheit”, Berlin, n°40/2009; trad. franç.: Robert Steuckers).
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samedi, 10 octobre 2009
Ernst Jüngers "Abenteuerliches Herz", revolutionär gelesen
Roland Lorent ( http://www.fahnentraeger.com/ )
Im Februar 1929 veröffentlichte Ernst Jünger seine Fragmentsammlung „Das abenteuerliche Herz“. Das Buch entstand u.a. vor dem Hintergrund einer gedanklichen Synthese aus Metaphysik und Technikakzeptanz. In der modernen Welt kann der Individualismus als Relikt des liberalen Bürgertums nur noch in einer subjektiven Scheinrealität entfaltet werden. Als Ausweg erscheint der Gedanke, nur eine auserwählte revolutionäre Elite sei bestimmt, nicht nur die Revolution herbeizuführen, sondern alles Vorhandene zugunsten einer völlig neuen Ordnung zu vernichten.
„Es ist mein geheimer Stolz, dass ich hinter der Mathematik der Schlachten den prächtigen Traum witterte, in den sich das Leben stürzte, als ihm das Licht zu langweilig ward. Daher ist es mir gelungen, den Krieg den Spießbürgern aus den Zähnen zu reißen, was in einer Zeit der allgemeinen Wehrpflicht nicht einfach ist und wofür mir mancher wackere Kerl seinen Dank ausgesprochen hat. Aber was in den feurigen Traumlandschaften des Krieges gültig war, das ist auch in der Wachheit des modernen Lebens nicht tot. Wir schreiten über gläsernen Boden dahin, und ununterbrochen steigen die Träume zu uns empor, sie fassen unsere Städte wie steinerne Inseln ein und dringen auch in den kältesten ihrer Bezirke vor. Nichts ist wirklich, und doch ist alles Ausdruck der Wirklichkeit.“ Die moderne Gesellschaft ist gekennzeichnet durch Misstrauen, Bedrohung, Vereinsamung. „So lebt der Einzelne inmitten der Millionenstädte der Zeit in einer eisigen Isolation. So aber auch bereitet sich die Stunde der Rattenfänger vor, der großen Zauberer, denen die alten, furchtbaren Melodien überliefert sind.“ Jünger kritisiert in scharfen Worten die deutsche Schläfrigkeit und die farblose Humanität sowie den traditionellen Mangel an revolutionärer Haltung. „Gerade dies, das Ausweichen vor der Verantwortung dort, wo sie ernsthaft zu werden beginnt, und das Billige der Erfolge, die heute zu ernten sind, hat mich die politische Tätigkeit sehr bald als unanständig empfinden lassen...Man kann sich heute nicht in Gesellschaft um Deutschland bemühen; man muss es einsam tun.“
„Es gibt heute in Deutschland vielmehr nur ein Verbrechen, und dies kann nur von den wertvollsten Kräften begangen werden. Es besteht, ob man nun denkt oder handelt, in der Unterlassung des Bestrebens, jede Fragestellung bis in die letzte Schicht der Verantwortung hineinzutreiben. Ein einziger Schlageter ist unendlich wertvoller als die öde Soldatenspielerei von hunderttausend anderen. Dieses Beispiel zeigt, wie das der Idee gemäße Handeln einer höheren als der zweckmäßigen Ordnung angehört und Bilder von höchster Fruchtbarkeit und Abgeschlossenheit erzeugt, an denen der gemeine Sinn nicht teilhaben darf.“
„Unsere Hoffnung ruht in den jungen Leuten, die an Temperaturerhöhung leiden, weil in ihnen der grüne Eiter des Ekels frisst, in den Seelen von Grandezza, deren Träger wir gleich Kranken zwischen der Ordnung der Futtertröge herumschleichen sehen. Sie ruht im Aufstand, der sich der Herrschaft der Gemütlichkeit entgegenstellt und der der Waffen einer gegen die Welt der Formen gerichteten Zerstörung, des Sprengstoffes, bedarf, damit der Lebensraum leergefegt werde für eine neue Hierarchie.“
„Es ist die kalte, niemals zu sättigende Wut, ein sehr modernes Gefühl, das im Spiel mit der Materie schon den Reit gefährlicherer Spiele ahnt und der ich wünsche, dass sie noch recht lange nach ihren eigentlichen Symbolen auf der Suche sei. Denn sie als die sicherste Zerstörerin der Idylle, der Landschaften alten Stils, der Gemütlichkeit und der historischen Biedermeierei wird diese Aufgabe um so gründlicher erfüllen, je später sie sich von einer neuen Welt der Werte auffangen und in sie einbauen lässt.“
„Erkennt man die heroische Weltanschauung als verbindlich an, so muss man auch fühlen, dass der Schmerz, den die Gewalt verursacht, weit erträglicher ist als der, der mit den vergifteten Waffen des Mitleids trifft. Der Verbrecher ist ein Mann, der den Krieg erklärt - nun gut, und er selbst ist am wenigsten darüber erstaunt, dass man mit ihm nach Kriegsbrauch verfährt...Entsprechendes lässt sich von der Haltung des Anarchisten sagen, nicht aber vom Kommunismus, vom deutschen Kommunismus, wohlbemerkt, der einen weit geringeren Zusatz vom Metall der Anarchie in sich verbirgt als etwa der russische - einem äußersten Kleinbürgertum, einer Aktiengesellschaft im Schrebergartenstil, deren Grundkapital der Schmerz und seine Reaktionen und deren Ziel nicht die Vernichtung, sondern eine besondere und langweiligere Ausbeutungsform der bestehenden Ordnung ist.“
„Diese Ordnung wird nicht angegriffen als Qualität, (...) sondern in bezug auf eine ihrer quantitativen Eigenschaften, weshalb denn auch jedes Schwungrad munter weiterläuft und sich im Wesentlichen nichts verändert...Dem entspricht eine Haltung, die zwar wenigstens auf kriegerische Taktik und Gewaltanwendung nicht verzichtet, ihr aber nicht jene Not, die von äußeren Dingen ganz unabhängig ist, zugrunde legt, sondern Leid und Mitleid, das sich dazu noch auf materielle Umstände bezieht. Daher ist es auch ganz unmöglich, dass anstelle von Intelligenzen führende Geister von Rasse in den Kommunismus einströmen, der ein Ausfluss der Unterdrückung, nicht aber der Selbstherrlichkeit ist - oder in dem Augenblick, wo das geschähe, bliebe vom Kommunismus nur noch der Name übrig. Denn Geister dieser Art sind unfähig, sich rein in der materiellen Schicht zu verständigen. Auch spielen die Leiden keine entscheidende Rolle für sie, sie scheuen sie nicht - ja sie suchen sie auf. Außerdem wird man ihnen nicht klarmachen können, warum ein Zustand, der unwürdig ist, von dem Augenblick an, in dem er sich besser bezahlt macht, aufhören sollte, unwürdig zu sein. Sie fühlen wohl, dass in diesem Falle der Wille zu einem weit gründlicheren, zu einem qualitativen Umsturz aufzutreten hätte, der freilich ohne seelische Voraussetzungen gar nicht als notwendig empfunden wird, und der von Bettelleuten, das heißt von Naturen, deren Gesinnung vom Geld abhängig ist, nicht aufgebracht werden kann.“
„Demgegenüber stellt sich der Anarchist klar aus der Ordnung heraus; er greift sie nicht als eine in sie eingebettete, infizierte Zelle an, sondern er sucht das Verhältnis eines selbständigen, kämpfenden Organismus auf...So kommt es, dass der Kommunist warten muss, bis die Gesellschaft reif ist, ihm als Beute anheim zu fallen, und dass er wiederum nur in Gesellschaft, nur en masse, diese Beute verwerten kann. Anders ausgedrückt: der Kommunismus ist zum entscheidenden Kampf gegen die Gesellschaft ganz unfähig, weil diese zu seinen Anschauungsformen gehört. Er ist kein Aufstand gegen die Ordnung, sondern ihr letzter und langweiligster Triumph.“
„Jeder Einzelne, sofern er nur in sich selbst die Gesellschaft entschieden vernichtet hat, kann sofort dazu übergehen, diese Vernichtung auch am äußeren Bestande der Gesellschaft zu vollstrecken...(...) Aus diesem Grunde ist denn auch die Lösung des Anarchisten Karl Moor so durchaus menschlicher, die des Sozialisten Karl Marx aber nur humanitärer Natur, wie denn überhaupt der Sturm und Drang eine äußerst erfreuliche Epoche ist, weil hier der Deutsche einer seiner selteneren Eigenschaften an die Oberfläche bringt und zeigt, dass ihm die Ordnung auch einmal langweilig werden kann.“
„Er sieht dort, wo jeder für sich im Kampfe liegt, die durchlaufende Front. Daher ist es seine Stimme, die inmitten der Verwirrung von einer höheren Einheit Kunde gibt oder die gleich der eines Meldeläufers bei Nacht das Herz in seiner Verlassenheit darüber beruhigt, dass der Anschluss besteht...Nur von diesem Punkte aus, als Ausdruck einer innersten und entschiedensten Rangordnung, scheint mir auch der Kultus des Unbekannten Soldaten...fruchtbar zu sein. Der weiße Flammenstrahl, der aus dem Asphalt schlägt, sollte der Jugend, die ihn grüßt, ein Symbol dafür sein, dass unter uns der göttliche Funke noch nicht ausgestorben ist, dass es immer noch Herzen gibt, die sich der letzten Läuterung, der Läuterung der Flamme, bedürftig fühlen, und dass die Kameradschaft dieser Herzen die einzig erstrebenswerte ist.“ |
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jeudi, 08 octobre 2009
Apollon, Pan, Dionysos: la religiosité de Friedrich Georg Jünger
Karlheinz WEISSMANN:
Apollon, Pan, Dionysos:
la religiosité de Friedrich Georg Jünger
Nombreux furent ceux qui s’étonnèrent de la conversion d’Ernst Jünger au catholicisme, quelques temps avant sa mort. Rares furent ceux qui s’attendaient à cette démarche, surtout parce que Jünger avait intensément étudié la Bible dans les années 40 et parce que le “platonisme” ne cessait plus d’imprégner son oeuvre, surtout à la fin, tant et si bien qu’on a soupçonné, lors de son passage au catholicisme, une motivation “hérétique” cachée, de type “gnostique”. Sans doute les frères Jünger, Friedrich-Georg et Ernst, ont été rarement aussi éloignés l’un de l’autre qu’en ce point: pour Friedrich-Georg, le christianisme n’a jamais été une tentation car il se souvenait, qu’enfant déjà, il ne comprenait pas “pourquoi il y avait des prédicateurs, des prêches et des églises”.
Pourtant le paganisme de Friedrich-Georg Jünger ne contenait aucune véhémence à l’égard de l’Eglise et de ses doctrines; son paganisme était plutôt quelque chose d’étranger au christianisme, quelque chose qui se situait au-delà de l’Evangile; ce “quelque chose” témoignait d’un résidu d’âme archaïque et, jeune, notre auteur ressentait déjà la nostalgie du temps “du Grand Père, ..., qui s’en allait vers le noisettier pour converser avec le serpent”. Le serpent, qui conserve chez Ernst Jünger une certaine ambivalence, est, chez Friedrich-Georg, un symbole tout à fait positif: “cette créature magnifique qui brille et se repose au soleil”, “cet animal flamboyant du Grand Midi”, consacré pour cela à Apollon, le dieu auquel Friedrich Georg se sentait tout particulièrement lié. Le serpent du Midgard nordique, animal apocalyptique, ne l’attirait nullement. Son paganisme ne se référait que très rarement aux traditions germaniques; ce furent surtout les mythes grecs qui occupèrent sa pensée. A la suite de nombreux essais, Friedrich Georg finit par publier le volume “Griechische Götter” (= “Dieux grecs”) en 1943, qui sera suivit de quelques livres sur des thèmes apparentés. Son engouement pour les dieux et la mythologie grecs, il le parachèvera par un long essai intitulé “Mythen und Mythologie” (= “Mythes et mythologie”), paru en 1976, peu avant sa mort, dans la revue “Scheidewege”, dont il était l’un des co-fondateurs. Cette fascination pour la mythologie grecque, il la doit bien évidemment à sa lecture de l’oeuvre de Nietzsche. Friedrich Georg Jünger était fondamentalement païen au sens où l’entendait Nietzsche, c’est-à-dire qu’il concevait le paganisme comme “un grand oui à la naturalité”, comme “un sentiment d’innocence au sein de la nature”, comme la “naturalité” tout court. Ce n’était pas chez lui une adulation de “l’élan vital” ou de la “Vie” au sens darwinien du terme ou au sens de quelque autre théorie évolutionniste. Son but était de tenter de faire à nouveau rejaillir une vision archaïque de l’existence, surgie jadis, en des temps immémoriaux, et qui s’est prolongée et maintenue jusqu’à l’époque chrétienne, sous des oripeaux christianisés; Friedrich Georg Jünger voulait se rappeler et rappeler à ses contemporains un mode de vie, d’existence, antérieur à l’histoire, a-historique: “Sans le temps, tout est là, simultanément – Au milieu repose chaque cercle” (“Ohne Zeit ist alles zugleich – In der Mitte ruht jeder Kreis”), écrivait-il dans son poème “Die Perlenschnur” (“Le collier de perles”). Les forces originelles possédaient chacun un rang: Apollon, lumineux, qui apportait l’ordre et fondait des villes; Pan, phallique, qui fécondait et habitait la “Wildnis” (= “la nature inviolée”); Dionysos, en ébriété, sauvage et mutin, qui incitait à la fureur et à la frénésie.
Le monde créé par les Olympiens n’était nullement idyllique et portait sans cesse la menace en soi. Dans “Chant de Prométhée”, Friedrich Georg Jünger fait justement parler Prométhée, le laisse énoncer ses prophéties, lui, le Titan enchaîné aux parois du Caucase pour être puni de son audace sacrilège:
“Und die Erde, auf deren Nacken Olympos thronet,
Ruft die Giganten herbei, die einst ihr Schoss sich gebar.
Sie, die unüberwindliche Nährerin stolzer Geschlechter,
Rufet mit wilderem Ruf Götter zum Streite herbei.
Untergang seh ich zunächst, Verzweiflung, Jahrhunderte alten,
Unerbittlichen Krieg. Alles versinkt in Nacht”.
(“Et la Terre, qui, sur ses épaules, porte l’Olympe, qui y trône,
Appelle à elle les Géants qui jadis naquirent de son giron.
Elle, l’infatigable nourricière de tant de fières lignées,
Appelle d’un cri plus sauvage encore les dieux au combat.
D’abord je vois poindre le déclin, puis le désarroi, enfin, une guerre,
Sans pitié, qui durera des siècles et tout s’enfoncera dans la nuit noire”).
La figure de Prométhée n’a cessé de hanter Friedrich Georg Jünger. Le plus “intellectuel” des Titans avait volé le feu aux dieux et l’avait donné aux hommes. Dans son ouvrage “Die Perfection der Technik” (1939/1946), F. G. Jünger donne une interprétation fort intéressante du mythe de Prométhée, car il souligne le caractère éminemment solaire de ce feu donné aux hommes. Ensuite, il n’interprète pas la colère des dieux comme une réaction de jalousie envers les hommes, devenus eux aussi possesseurs de l’élément, mais comme une fureur de voir le feu divin, force élémentaire et primordiale, “mis en service”. Les dieux ne peuvent pas l’admettre. La nature titanique de la technique humaine est entièrement mise en exergue ici car elle n’a jamais trouvé la voie pour utiliser l’énergie solaire: dès lors, elle a toujours dû se rabattre sur des forces telluriques, comme celles qui se libèrent lors de la fission de l’atome. Disproportion, démesure et monstruosité sont les caractéristiques essentielles de tout ce qui relève du titanique et, partant, de la technique. La domination du titanique/technique ne pourra donc être éternelle, avance prudemment F. G. Jünger; en effet, son poème se termine par les vers suivants:
“Dies war der Gesang des hohen Fürsten Prometheus.
Doch der Donner des Zeus schlug den Titanen hinab”.
(“Tel fut le chant du noble prince Prométhée.
Malgré cela, le tonnerre de Zeus le jetta bas”).
F. G. Jünger avait parfaitement conscience qu’une grande différence existait entre les réflexions que nous posons aujourd’hui sur le mythe et la pensée mythique en soi: le danger de confondre réflexions dérivées du mythe et pensée mythique est grand. Les réflexions sur le mythe et sur la permanence de sa puissance ont été à la mode, surtout pendant l’entre-deux-guerres. Aussi le nationalisme de facture barrèsienne, auquel les deux frères Jünger avaient adhéré, était-il conçu comme une “foi”, une “religion”. Friedrich Georg Jünger avait expressémentdéfini la Nation comme “une communauté de foi”, une “communauté religieuse”, qui s’exprimait par ses mythes et ses héros. Cette position n’a été qu’un engouement passager car les frères Jünger se sont assez rapidement aperçu que le mythe antique n’avait pas grand chose à voir avec la “foi” ou la religiosité au sens de la tradition biblique: “La foi, en tant que force qui tient quelque chose pour vrai, qui vit et meurt dans la conviction de cette vérité, implique que ce qui est tenu pour vrai n’apparaît pas, ne se montre pas somatiquement. Rien ne paraît plus étrange et plus invraisemblable pour l’humanité actuelle que l’apparition physique des dieux. Car l’humanité actuelle ne croit pas en eux. Mais énoncer ce constat ne suffit pas. Les dieux ne peuvent plus apparaître à l’homme moderne, même s’il croit encore en eux. Et pourquoi pas? Parce que l’apparition d’un dieu n’a rien à voir avec la foi ou avec l’absence de foi, car les mythes ne recèlent aucune réalité à laquelle il faudrait croire, aucune réalité que l’on pourrait toucher du doigt ou montrer”.

Les dieux ne demandent pas la foi, ils demandent des sacrifices. Les Anciens ne doutaient pas de leur existence parce qu’ils percevaient leurs actions, leurs effets, leurs manifestations, parce qu’ils leur étaient dans une certaine mesure proches, même s’ils étaient fondamentalement séparés des hommes. Mais cette proximité du divin apparaît impossible à ceux qui ne croient qu’à une rencontre avec le “Tout Autre”, dans le sens où l’enseignent les religions révélées. C’est donc cette “expérience” du divin, cette expérience qui rencontre le scepticisme des religions révélées, qui constitue la véritable racine de la religion de Friedrich Georg Jünger.
Karlheinz WEISSMANN.
(article paru dans “Junge Freiheit”, n°38/1998; trad. franç.: Robert Steuckers, 2009).
00:14 Publié dans Révolution conservatrice | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : révolution conservatrice, allemagne, paganisme, grèce antique, antiquité grecque, dieux, mythologie, panthéon, mythes | |
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mercredi, 07 octobre 2009
SYNERGIES en Allemagne: pourquoi?
Archives de SYNERGIES EUROPEENNES - 1996
SYNERGIES en Allemagne: pourquoi?
Une mise au point du Président Mark Lüdders
Quand on lui posait la question de savoir si la “droite” allemande avait un avenir, le non-conformiste Günter Maschke répondait brièvement et sèchement: “Pas pour le moment”. Et il poursuivait en expliquant pourquoi son pronostic était si négatif. Parce que le niveau intellectuel de ces droites était tout simplement misérable. Maschke a donné cette réponse à Junge Freiheit et à Vouloir en 1991. Son jugement n'a pas dû se modifier considérablement depuis lors. Tout porte à croire qu'il doit même être plus pessimiste encore à l'heure qu'il est.
En effet, on peut aisément constater que les droites allemandes se sont intellectuellement repliées sur des positions datant du siècle dernier, celui du bon vieil Etat-Nation. On s'encroûte dans ses manies, on quitte la ville pour s'installer dans une campagne soi-disant “vierge” de toutes compromissions avec la modernité, on sombre dans le solipsisme, on se plaint, on attend que cette situation si terrible infligée au pays par la défaite de 1945 prenne fin... Ces reclus et ces figés connaissent leurs ennemis: l'ordinateur, émanation de l'âge du Mal, le paprika que consomment les citadins et qui ne pousse pas en terre germanique (et ne peut donc être consommé sous peine de sombrer dans un état de péché mortel), la science qui n'est jamais qu'un résultat des Lumières, gauchistes avant la lettre, et “maçonniques” de surcroît... De Frédéric Nietzsche, ils ne connaissent que le nom, ont oublié celui d'Arnold Gehlen, ne s'intéressent plus aux travaux de Lorenz et de son école d'épistémologie biologique, ignorent bien entendu les leçons de Zinoviev et de De Felice, d'Oakshott et d'Ortega y Gasset, de Huizinga et de Maffesoli: tous des étrangers...
Ce petit monde replié sur lui-même est toutefois convaincu de deux choses: les Juifs (toujours eux!) contrôlent tout dans le monde, et les Polonais occupent les provinces orientales de l'Allemagne qui doivent nous revenir. Quand les Juifs cesseront de tout contrôler et que Breslau, Stettin, Dantzig, etc. redeviendront pleinement allemandes, tout ira bien entendu mieux dans le meilleur des mondes... Force est de constater qu'une bonne partie des droites allemandes a complètement perdu le sens des réalités politiques et n'a plus qu'une culture politique fragmentaire et lacunaire, assortie de phobies inexplicables qui les empêchent de sortir de leur ghetto.
Face à ces droites repliées sur elles-mêmes, nous avons des droites qui se sont ancrées —ou cherchent à s'ancrer— dans l'ordre fondamental de la démocratie libérale: elles tentent d'entrer en dialogue avec l'établissement, afin de changer graduellement la société et en espérant qu'elles obtiendront finalement le pouvoir politique à haut niveau ou une parcelle importante de celui-ci. Mais en visant cet objectif fort lointain, ces droites-là oublient leurs positions idéologiques et axiologiques de base et snobent leur clientèle au parler plus cru et aux aspirations plus directes. Elles ne comprennent pas que la “méchante” oligarchie dominante ne s'intéresse pas à elles, mais ne vise que le maintien de ses postes, fonctions, statuts et positions et qu'elle dosera toujours savamment ses compromis pour rester au pouvoir et ne concéder que d'infimes parcelles de “pouvoir” purement décoratif, en marge des décisions politiques réelles. Ces droites-là tentent à tout bout de champ de redéfinir les concepts, s'engluent dans des discussions interminables visant à ménager la chèvre et le chou, finissent par prétendre qu'elles seules respectent le principe de la liberté d'expression et sont en droit de détenir le label de “véritable libéralisme”. Ces droites-là pèchent également par naïveté: elles ne voient pas, ou refusent de voir, que l'idéologie libérale n'est plus ce qu'elle était au XIXième siècle, qu'elle n'est plus l'expression d'une bourgeoisie cultivée et entreprenante, mais qu'elle est un instrument de domination subtil ou une illusion progressiste agressive que l'on appelle la “permissivité”. En spéculant sur un libéralisme (conservateur et tocqueviellien) qui n'existe plus, ces droites se retranchent elles aussi dans des anachronismes du XIXième siècle. Elles demeurent certes “morales” ou “irréprochables” aux yeux de l'idéologie dominante, mais sur le plan politique ou sur le plan intellectuel, elles sont tout à fait inoffensives. Surtout parce qu'elles ne tentent même pas de construire une véritable alternative à l'idéologie dominante: elles demeurent obnubilées par leur souci d'être jugées “conformes à la constitution”.
Mais le paysage idéologico-politique allemand connaît tout de même quelques exceptions positives. Il faut mentionner ici les efforts des nationaux-révolutionnaires des années 70 qui ont eu l'intelligence et le courage de jeter les premiers ponts entre le savoir scientifique contemporain et une vision du monde alternative. Si, dans les droites, on a pu apercevoir deci-delà quelques modernisations dans le discours, c'est à cette petite phalange d'idéologues audacieux qu'on le doit. Mais ces hommes n'ont été qu'une poignée: une partie d'entre eux se sont malheureusement fondus dans les droites recluses ou “entristes”, une autre partie s'est retirée de tout, écœurée; si bien que nous n'avons plus en Allemagne qu'un tout petit groupe d'intellectuels combattifs et toujours non-conformistes...
Devant ce triste bilan des agitations des droites allemandes, disons que la “Révolution Conservatrice” de l'entre-deux-guerres avait appliqué à la perfection le mot-d'ordre de Schiller (“Vis avec ton siècle, mais n'en sois pas la créature”) mais qu'après cette formidable révolution intellectuelle, sur laquelle le monde entier se penche encore aujourd'hui, les droites allemandes sont entrées en une profonde léthargie, ont raté lamentablement leur connexion aux nouveaux impératifs scientifiques ou philosophiques.
Cet échec est un défi pour les jeunes qui refusent tant les schémas de la droite recluse que ceux de la droite alignée. Ces jeunes sont là, leur nombre croît, mais ils n'ont ni tribune ni organisation. Ils perçoivent l'étroitesse d'esprit des uns et l'opportunisme des autres. Ils veulent rester dans la société civile, dans la société réelle, bref dans le peuple, mais sans perdre leur ouverture d'esprit. Ils veulent influencer la société sans vénérer les vieilles lunes en place et sans sacrifier aux lubies du libéralisme permissif. Dans les circonstances actuelles du paysage politique allemand, ces jeunes révolutionnaires constructifs, disséminés dans toute la société civile, ne rassemblent pas leurs forces, ne mettent pas leurs énergies en commun pour atteindre un objectif bien défini: ils restent éparpillés dans de petites organisations sans envergure et demeurent isolés (ce que l'idéologie et le pouvoir dominants attendent d'eux). C'est à cette carence qu'entend répondre une organisation comme SYNERGON. En effet, SYNERGON veut construire une communauté de pensée, bâtir une plate-forme pour tous ceux qui luttent isolément, rassembler les jeunes qui réclament l'avènement d'une droite ouverte aux idées nouvelles et qui veulent collaborer activement avec leurs homologues de tous les pays d'Europe. Car il faut mettre fin à cette diabolisation xénophobique des autres Européens: il faut aller au devant d'eux pour apprendre leurs recettes, pour élargir nos propres horizons.
Un tel échange à l'échelle continentale animera et fécondera tous les “révolutionnaires-conservateurs” d'Europe: les Allemands pourront ainsi tirer profit de la flexibilité intellectuelle de leurs amis italiens, étudier plus profondément les legs de la pensée philosophique française de ces dernières décennies (Deleuze, Guattari, Foucault, Rosset, Maffesoli, etc.), découvrir les filons conservateurs-révolutionnaires des Russes, etc. Par ailleurs, Français, Italiens, Ibériques et Russes, épaulés par les Allemands, pourront plonger plus directement dans les méandres de la “Révolution conservatrice” qui alimente encore tous les discours innovateurs de notre temps. Une invention allemande comme le mouvement de jeunesse (des Wandervögel à la Freideutsche Jugend et aux expériences plus audacieuses et plus étonnantes des années 20) pourra apprendre aux autres Européens à vivre plus concrètement leurs idéaux et à les transmettre en dehors de la seule sphère intellectuelle. De plus, l'écologie politique organique, donc révolutionnaire-conservatrice, qui est une idée allemande, pourra être communiquée à tous les cercles intéressés d'Europe.
Le grand défi qui nous attend, nous les synergétistes de tous les pays qui appellent à l'unité, c'est de forger de concert une Weltanschauung qui soit réellement en prise avec notre temps, qui soit aussi éloignée de tout dogmatisme, de tout esprit partisan, qui puisse inclure et exploiter les résultats des recherches scientifiques les plus neuves, afin d'offrir à la société civile une alternative réelle et praticable à l'idéologie dominante, instrumentalisée par le pouvoir.
Pour obtenir un résultat tangible, nous devons donc échanger des idées au-delà des frontières en Europe, débattre, comparer des positions en apparence différentes voire irréconciliables. SYNERGON est le seul mode d'action commune qui puisse à l'heure actuelle répondre à ce défi. SYNERGON ne se pose pas d'emblée comme le concurrent d'autres organisations: nous ne cherchons pas à absorber ou à détruire ou à phagocyter des partis, des cercles ou des clubs déjà existants, mais nous voulons tout simplement animer un centre de coordination et de coopération.
Notre espoir est de réussir bien entendu, d'abord en établissant SYNERGON en Allemagne, afin que Günter Maschke puisse envisager l'avenir avec davantage d'optimisme.
Mark LÜDDERS.
00:05 Publié dans Synergies européennes | Lien permanent | Commentaires (0) | Tags : nouvelle droite, synergies européennes, droites, conservatisme, révolution conservatrice, allemagne | |
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